01 maggio 2015 18:24

(Premessa: dalla prossima settimana fino alla fine di ottobre, in uno degli spazi Rai all’Expo, dj e conduttori di Radio2 a Milano, tra cui il sottoscritto, si alterneranno nel proporre musica e parole per i visitatori verso sera).

Pioviggina, a Milano, il primo maggio. È il tipo di clima che la popolazione locale spesso commenta con del sarcasmo sulla primavera. La primavera, come molti fingono di ignorare, è una stagione piovosa e fresca (quella secca con il caldo costante si chiama estate). I giornalisti questa mattina hanno finalmente visitato Expo 2015, l’esposizione universale dedicata a cibo e alimentazione che ha aperto oggi nel discusso sito sul confine tra Rho e Milano, a una decina di chilometri dal centro.

Tutti i socialini pullulano di commenti, ironie, indignazione, fotografie di teloni che coprono i ritardi, parecchi scuotimenti di testa e qualche primo stupore. Si può ipotizzare che, dopo anni di discussioni, dimissioni, ritardi, polemiche, arresti e allarmi, si arrivi a un punto in cui Expo non sarà più un argomento potenziale ma un fenomeno tangibile.

Giusto ieri una manifestazione di felpe e maschere sorridenti ha indicato nell’Expo l’epicentro dei mali del consumismo, sottolineando questo punto di vista con la solita litania di bombolette e retorica antibancaria. Il giorno prima la democrazia stava morendo per mano di un voto di fiducia, ma questa è un’altra storia.

Per spiegare come i milanesi stanno commentando Expo, citerei l’hashtag #Milagno che qualcuno molto acuto ha coniato recentemente: è una evoluzione moderna della sobrietà leggendaria dei milanesi, quell’atteggiamento concreto e un po’ sbrigativo che le commedie del dopoguerra fanno risaltare per contrasto con gli abbracci calorosi e le grandi abbuffate lente dell’Italia mediterranea.

Un certo spirito blasé, sostenuto e annoiato, figlio dell’espansione della moda e dei servizi rispetto alla cultura industriale del passato, si è fatalmente diffuso negli ultimi decenni. In questo contesto, l’entusiasmo funziona solo per chi vende (ma le modelle impassibili di Prada avrebbero da dire anche su questo), e chi compra opta per una più sportiva alzatina di sopracciglia. Qualche giorno fa, mentre tutta la città era alla Darsena, porto fluviale del naviglio rinato dopo decenni di cantieri fermi e progetti deliranti, c’era chi si lamentava che fosse tutto troppo nuovo, per niente vissuto. In questo contesto ha aperto oggi l’Expo di #Milagno.

La cosa buffa è che i milanesi si vivono come portatori di uno standard qualitativo stellare, ignorando che la politica locale (regione, provincia, comune) è stata, con l’eccezione della giunta del sindaco Pisapia, molto più trafficona e provinciale delle sue aspirazioni internazionali. Nata da una collaborazione tra politica e industria, l’Expo si è portata dietro tutto quello che doveva, arresti compresi. Non sarà adatta alle asticelle altissime che molti cittadini di Milano ostentano, ma non si vede come ci si sarebbe potuti aspettare altro. E poi, per chi vuole continuare, è la sponda perfetta di qualsiasi insoddisfazione.

Per usare una metafora televisiva, ho idea che molti abbiano vissuto l’esposizione internazionale, negli anni in cui se ne è parlato e fino a oggi, come il proprio canale di riferimento. Prima c’è stato chi pensava che sarebbe stata una Expo di Rai3, tutta improntata sul ripensamento dei rapporti economici tra produttore di cibo e consumatore, con coinvolgimento delle comunità locali e santificazione di tutte le filiere corte del mondo.

Le architetture, secondo questa visione, sarebbero state quelle della visionarietà, del coraggio, le più grandi menti del mondo a confronto: tavoli, dibattiti, congressi, un concentramento di intelligenze immaginifiche pronte a scatenarsi, in una città che ha solo da poco un pur godurioso quartiere di grattacieli, ma più simile a una capitale asiatica negli anni novanta che a un centro dell’innovazione architettonica contemporanea.

C’è stato successivamente chi ha vissuto l’Expo come qualcosa di più simile a Rai2, divertente, anche sopra le righe, con la sua dose di idee nuove. Questo Expo sarebbe stato un’orgia di logistica e gestione di tutte le istanze, anche quella della grande industria alimentare, ma portate con talmente tanta grazia da permettere a tutti di convivere uno accanto all’altro. La giustapposizione degli stili di tutto il mondo sarebbe stata un’esplosione di contrasti e affinità ricca di stimoli. Il tutto in Italia, dove la via di mezzo tra lo stretto elitario e il largo pop ci viene molto difficile.

C’è poi la visione che ci ha restituito la cerimonia di apertura di ieri sera, con l’ITALIA tricolore nel mondo, le battute sulle lingue straniere, Andrea Bocelli che canta Verdi. E questa è, nei fatti e metaforicamente, una visione Rai1 dell’Expo, internazionalpopolare, capace di montare a neve gli stereotipi nazionali per far sentire tutti simpaticamente a casa, come su una nave da crociera, mentre passano accanto al padiglione azero o a quello giapponese, come se fossero i menù del grande ristorante sul ponte Panorama (passerà senza dubbio anche il capitano tra i tavoli a salutare).

Nella realtà, con tutti i ritardi, le inefficienze, gli sprechi e gli arresti, tutto lascia pensare che Expo non sarà la fine dell’Italia, non sarà il fallimento della bella figura che i giornali internazionali scrivono in corsivo per raccontare il nostro paese come un acquario vestito benissimo, né forse un memorabile momento di slancio antropologico globale.

Sarà, come capita spesso nella vita, un misto di tutte le sensibilità, compresa la sacrosanta aria da nave da crociera, compreso il modo efficiente con cui ci vendiamo nel mondo, tradizionali e un po’ casinisti, ma quanto si mangia bene. D’altronde se si imbracciasse quel cosmopolitismo da startup così di moda nella capitale lombarda, che senso avrebbe fare un Expo alimentare proprio qui, visto che locale è sinonimo di provinciale a casa propria, ma è tanto liberatorio a New York, Bangkok, Sydney e Johannesburg?

Come ogni altra volta, i milanesi si placheranno. Tra un paio di mesi, quando tutti i padiglioni saranno finiti e aperti, ci andranno. Dovranno ammettere che alla fine, guarda, non credevo, sono andato a vedere l’Expo e, il padiglione Italia lasciamo proprio stare, ma ho visto tre o quattro cose veramente interessanti. Ti dirò, mi sono anche divertito.

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