La sera di domenica 31 gennaio sul sito louisck.net è comparsa, accanto agli spettacoli del comico, una nuova voce: la serie Horace & Pete. Dopo il primo episodio, uscito quel giorno al prezzo di 5 dollari, fino a oggi ne sono stati pubblicati altri cinque, al prezzo di due o tre dollari ciascuno e di lunghezze diverse. Quella della pezzatura variabile (tra i trenta e i 67 minuti) è solo una delle caratteristiche che rendono Horace & Pete un oggetto unico nel fitto panorama delle serie. D’altronde, quando non devi inserirci della pubblicità né ospitarlo in un palinsesto, non è necessario concepire un prodotto secondo alcuno standard di formato.

Louis “C.K.” Székely, classe 1967, è uno degli stand-up comedian statunitensi più celebri e di maggior successo degli ultimi anni. Dopo aver fatto, a partire dagli anni novanta, l’autore per David Letterman, Conan O’Brien, Dana Carvey e Chris Rock, Louis ha scritto e diretto qualche film per la tv e due piccoli film distribuiti in sala, per poi cominciare con le serie. La prima è stata la sitcom Lucky Louie, molto divertente, una sola stagione prodotta da Hbo nel 2006. Poi è arrivata Louie, trasmessa su Fx dal 2010 per cinque stagioni fino alla primavera del 2015.

Scritta, diretta, interpretata e montata in proprio, Louie è, un po’ come Seinfeld, una serie ispirata alla vita vera di un protagonista che fa il comico e si esibisce al Comedy Cellar di New York, ma con personaggi ed eventi di completa finzione. Nel corso degli anni Louie è cambiata parecchio. Louis C.K. dice da sempre che applica la regola di George Carlin (pilastro della stand-up comedy irriverente, in attività dai primi anni sessanta fino alla morte, nel 2008), per cui il materiale di ciascuno spettacolo deve essere sempre originale, sempre nuovo ogni anno, senza classici, senza bis con i pezzi storici. Questo rifiuto della storicità delle battute e dei temi rinforza un’idea di comico che ha a che fare con il ruolo e il punto di vista sul mondo, più che con lo stile o il tono. È un’idea perfettamente coerente con l’eventualità di smettere di “fare il comico” pur continuando in qualche modo a esserlo, solo senza far evolvere un punto di vista sul mondo in chiuse comiche.

Così, nel corso degli anni, Louie è passato da una forma più canonica, almeno nella reazione del pubblico che banalmente era portato a ridere delle situazioni e delle battute, fino a una lettura amara della realtà. Il sarcasmo e l’ironia spesso autoriferiti delle prime due stagioni sono sopravvissuti nella forma della sincerità della satira sociale, della capacità di palesare e smontare le contraddizioni e le ipocrisie, ma sono spariti gradatamente i momenti ridicoli.

Questa scena sul rapporto con le donne grasse della terza serie dimostra esattamente il tipo di situazioni che oggi Louis C.K. ama mettere in scena. A volte sono difficili da reggere per il pubblico, perché in genere siamo abituati a vivere i contrasti, i distacchi e le delusioni dei personaggi in contesti che sono drammatici anche nella cornice, e ci mettono in qualche misura in guardia sulla piega che stanno per prendere gli eventi. Invece qui ci sono le condizioni per la leggerezza, il flirt e il benessere delle commedie romantiche, ma la realtà ha la meglio sui presupposti e sull’ambiente, in questo caso la riva del fiume Hudson. Louie non è una commedia romantica e non è nemmeno un dramma, ma è più una forma ibrida con il contesto della prima e i toni del secondo.

Un rapporto diretto con il pubblico

Horace and Pete, la nuova serie di Louis C.K., è ambientata in un bar di Brooklyn che ha cento anni: l’insegna “Horace and Pete’s” dei titoli di testa dice che il locale è aperto dal 1916. In effetti due famiglie hanno chiamato dei figli Horace o Pete per un secolo, così da produrre diverse generazioni di gestori con lo stesso nome. Al momento ci sono il vecchio Pete (Alan Alda), il nuovo Pete (Steve Buscemi) e un Horace (Louis C.K.). Al bancone sono seduti sempre Leon (Steven Wright) che scribacchia costantemente con un taccuino, il polemico Kurt (Kurt Metzger) e Marsha Green (Jessica Lange), l’amante alcolizzata degli ultimi anni del vecchio Horace. A volte passa Sylvia, la sorella di Horace (Edie Falco, la moglie di Tony nei Soprano) che vorrebbe che il locale fosse venduto perché ha bisogno di soldi. Spesso arrivano avventori occasionali, stupiti della natura tradizionale del luogo, dove non si servono cocktail ma solo birra e whisky.

Dal 2011 Louis C.K. ha iniziato a vendere in proprio, sul proprio sito e senza sistemi di protezione dalla pirateria, lo speciale televisivo del suo monologo portato in tournée nei teatri. Ma uno stand-up è costituito da una persona sul palco che parla per un’ora mentre tutti ridono: produrlo non richiede grandi mezzi, un eventuale scarso successo è ammortizzato dal successo della tournée di cui è solo una ricaduta, e anche formalmente non prevede ripensamenti di sorta. Con Horace & Pete siamo davanti a una serie che viene prodotta, scritta, girata, montata, recitata e distribuita in modo insolito.

La serie si svolge tutta nel locale e nell’appartamento di Louis al piano di sopra. I movimenti di macchina sono minimi, ma ci sono inquadrature lunghe e fisse più di quanto non ne siano mai state fatte nella tv americana. La scansione degli eventi delle puntate, oltre alla lunghezza, è assolutamente variabile: possono esserci tre o quattro scene diverse, ma c’è un episodio fatto di un solo dialogo al tavolo tra Horace e la sua ex moglie, mezz’ora circa, campi e controcampi, fine. Gli avventori al bancone discutono anche questioni legate alla contemporaneità, ragione per cui ha molto più senso guardare Horace & Pete adesso, prima che una parte della sceneggiatura invecchi. Si parla per esempio anche delle primarie, di Donald Trump e Bernie Sanders.

Il personaggio chiave di queste prime puntate è senza dubbio Uncle Pete, l’anziano burbero e conservatore interpretato da Alan Alda, che molti ricorderanno nella serie Mash o in Crimini e misfatti di Woody Allen. Uncle Pete è insopportabile, detesta quasi tutti: è quel tipo di retrogrado naturale che disprezza la collettività e vive nel proprio fortino di lavoro e famiglia, che i personaggi (e gli spettatori) vorrebbero cambiare a forza di litigate.

Se vede un omosessuale, Uncle Pete lo chiama faggot; è orgoglioso di dire che nel locale si è dato da bere “ai negri” fin dagli anni trenta; è contrario all’aborto nel modo più oltranzista e violento possibile. Eppure è capace, nel nocciolo inestricabile di questa durezza, di mostrare a tratti un’umanità e un’onestà capaci di far vacillare l’indignazione del pubblico sofisticato e tendenzialmente di sinistra della serie.

Produrre tutto autonomamente per un pubblico che si fida permette di non fare promozione

Un paio di settimane fa, nella mail di risposta all’acquisto dell’episodio, Louis C.K. ha scritto a chi ha comprato la puntata per metterlo in guardia contro il candidato repubblicano Donald Trump e la sua apparente simpatia, paragonandolo in qualche misura a Hitler. Negli stessi giorni anche i suoi colleghi John Oliver e John Mulaney hanno espresso punti di vista critici nei confronti di Trump.

Della serie, arrivata con la sesta puntata alla fine del “primo atto”, Louis quasi non parla. Intervistato a proposito di Horace & Pete dal New York Times, si è limitato a spiegare che questo modo di produrre tutto autonomamente per un pubblico che si fida permette di non dire niente di niente, non fare promozione, offrire il piacere ormai dimenticato della scoperta assoluta.

In Horace & Pete si parla di amore, sesso, morte, malattia, tradimenti, delusioni, incomprensioni, rancori, rinunce e lontananza. Se l’atmosfera non sembra abbastanza newyorchese, e lo è molto, c’è un tema musicale semplicemente perfetto composto e interpretato da Paul Simon. In mezzo alle puntate c’è spesso un intervallo. E per quanto non sia normale vedere la scritta “Intermission” e sentire della musica per un paio di minuti durante uno spettacolo televisivo, è anche vero che qui si raccontano cose intense, e mancano sia lo sfogo della risata sia la pausa data dagli intervalli pubblicitari. Horace & Pete a prima vista sembra quasi uno spettacolo teatrale, ma in realtà prende la forma della situation comedy, con il suo impianto statico e rassicurante, e ci mette una libertà e un tono che lì dentro non ci sono mai stati. Chi si ricorda il vecchio Cin Cin avrà l’impressione di vedere allo stesso tempo la stessa cosa e il suo contrario.

Louis C.K. ha recitato in alcuni film degli ultimi anni, sempre in ruoli secondari e abbastanza dimessi: Il primo dei bugiardi del collega britannico Ricky Gervais, American hustle, Blue Jasmine di Woody Allen e L’ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, dove interpreta il ruolo dello sceneggiatore accidioso Arlen Hird. A gennaio è anche partita Baskets, la serie scritta e prodotta insieme a Zach Galifianakis, che è il protagonista e interpreta un clown fallito. Anche lì si ride poco.

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