Tra tutte le società della cosiddetta sharing economy, Uber è quella che ha sollevato più controversie. In molte grandi città europee, comprese quelle italiane, i tassisti hanno protestato contro l’azienda californiana da quando si è affacciata sul mercato.
Quest’anno, negli Stati Uniti, due diversi procedimenti giudiziari, in cui gli autisti di Uber della California e del Massachusetts hanno chiamato in causa l’azienda per ottenere lo statuto di dipendenti, si sono conclusi con un accordo di risarcimento di circa cento milioni di dollari complessivi. Poche settimane fa però un giudice californiano ha respinto l’accordo, chiedendo altre documentazioni e coinvolgendo il ministero del lavoro californiano per fare più chiarezza sia sull’entità della somma sia sulla natura eventuale della violazione dei diritti dei lavoratori.
L’idea che gli autisti siano liberi professionisti e non dipendenti è alla base del modello di impresa di Uber, e le cause riguardano sempre questo punto. Un’altra causa collettiva degli autisti di tutti gli altri stati, già partita, lo metterà ulteriormente in discussione nei prossimi mesi. Uber ha attualmente un valore stimato di 62,5 miliardi di dollari.
Rapido e divertente
La distanza tra West Hollywood e il Convention Center, due punti di Los Angeles che fisicamente distano 16 chilometri l’uno dall’altro, si traduce in un viaggio che va dai 25 minuti a un’ora. In taxi si possono spendere anche 55 dollari, ma con Uber pool la spesa può scendere fino a otto dollari.
Uber pool avrebbe senso anche solo per motivi economici. Ma è un servizio più rapido e più divertente dei taxi. E magari queste differenze hanno contribuito al fallimento a gennaio di Yellow Taxi, la più grande azienda di trasporto pubblico di San Francisco, città dove Uber è nato.
Il tema della rapidità è legato al fatto che gli autisti Uber usano obbligatoriamente un telefono per interagire con il servizio, e su quel telefono hanno sempre anche Waze. Waze è il servizio di proprietà di Google che dà aggiornamenti in tempo reale sul traffico, e permette di non restare quasi mai imbottigliati. I tassisti invece si basano più spesso sulla propria esperienza: a volte sono scaltri, altre volte sbagliano e fanno perdere tempo. Poi una corsa in taxi ha una tariffa variabile; quella di Uber pool ha un costo stabilito quando la accetti, quindi prima arrivi, meglio è per l’autista.
Uber pool è attivo solo in alcune grandi città del mondo: è la versione telematica e geolocalizzata del concetto “porto anche te, tanto sei di strada”. Il sistema gestisce le richieste, fa sì che le auto viaggino il più possibile piene e non debbano deviare troppo dalla destinazione per accontentare tutti. Esiste un sistema simile anche sulla piattaforma concorrente Lyft, ma non l’ho provato.
Tutti si chiamano per nome, e ci si saluta sempre ogni volta che qualcuno sale o scende
Per usare Uber pool apri la app, lo selezioni, imposti partenza e destinazione, e presto ti viene comunicato quanto spenderai ed entro che ora arriverai. Se accetti, compaiono sul telefono il tipo di auto, il numero di targa, la faccia e il nome dell’autista; se c’è, compare anche il nome della persona che condivide con te la corsa. A volte sei tu il primo del giro, e il sistema troverà un altro durante il tragitto. Gli autisti spesso salutano il bling bling del loro telefono con un certo divertimento: “Ah, andiamo a prendere Melanie, Matteo”. Andiamo.
Tutti si chiamano per nome, e ci si saluta sempre ogni volta che qualcuno sale o scende. Non sempre, ma è facile che si chiacchieri un po’. Non si capisce se sia lo spirito californiano a dare alle relazioni di Uber pool questa natura vagamente hippie, o si tratti di entusiasmo contemporaneo da startup. In realtà c’è una continuità diretta tra i fiori in bocca dell’estate dell’amore e l’entusiasmo messianico di Steve Jobs, tra il brano If you’re going to San Francisco e l’idea di andarci insieme, condividendo il tragitto con una app pensata in garage. Qui a Los Angeles ci sono meno quinoa e meno venticinquenni miliardari, ma il sistema funziona lo stesso.
Molti autisti di Los Angeles sono armeni, e alcuni hanno deciso di lavorare con Uber. La comunità armena un tempo stava nel quartiere di Little Armenia, ma adesso si è trasferita in massa a Glendale, all’estremità della San Fernando Valley, sempre contea di Los Angeles. “Quindi vivi a Glendale?”, provo a indovinare. E Daniel, armeno iraniano che mi sta raccontando quanto sia cristiano il suo popolo e quanto lui abbia odiato gli ayatollah, risponde: “Yes, yes, ahahahaha, we all live in Glendale!”.
Tutti gli armeni che incontro durante i miei viaggi sono in effetti di Glendale. Il più loquace è proprio Daniel. Si discute anche del genocidio armeno del 1915. “Gli ebrei hanno trovato una parola giusta per il loro genocidio. Tutti se la ricordano. Noi no, non ancora”, mi dice sorridendo. Mentre sto scendendo, mi saluta con un consiglio turistico: in Armenia bisogna andare a giugno perché c’è la frutta più bella e buona del mondo.
Yong, il cinese che mi prende su vicino allo Shrine auditorium, invece è molto in carriera. È di Shanghai e parla solo di soldi. Mi chiede di tutto sui videogiochi e la tecnologia, ma sempre con grande interesse nei confronti del ritorno economico. Parla un inglese creativo, e mi dice che il capo di Huawei è un genio, infatti ha molti soldi. Sale una ragazza israeliana che studia alla Ucla, ma sta andando a una festa ed è di poche parole. Yong cerca di coinvolgerla sulla questione dei soldi che farà con il suo corso di laurea, ma lei lo ignora. La molliamo alla sua festa, poi da soli chiacchieriamo dei bambini di Yong, che sono piccoli e hanno bisogno di tempo, così lui preferisce fare turni lunghi un paio di volte la settimana invece di guidare poco tutti i giorni.
Vivere e morire a Venice beach
Quando salgo sull’auto di Julian, quarantenne gay che vorrebbe pubblicare un suo libro ma per ora guida, sul sedile dietro con me c’è un passeggero, anche lui gay, un po’ stonato. Julian è molto placido, gli piace tantissimo guidare. “Cosa volete che vi dica? Adoro guidare. E adoro avervi tutti con me in macchina! Mi piace chiacchierare, sentire le storie di tutti”, dice. Non è troppo spedito nella guida. La sua Corolla sembra un caffè letterario.
Quando sale una ragazza bionda, quello stonato accanto a me le dice: “Benvenuta! Siamo a metà tra un ascensore e un tram”, ridacchiando. Lei fa l’autrice televisiva, e lavora a uno di quei programmi di finti casi giudiziari. Ci fa anche capire che era a casa di uno degli attori dello show, e hanno fatto sesso. Propone di fermarsi tutti insieme a bere delle birre. La proposta non viene raccolta dal resto degli occupanti: va bene l’amicizia e la libertà, ma abbiamo da fare. Quando finalmente arriva a destinazione il tizio accanto a me, lo richiamo, “Hai dimenticato una cosa!”, e gli passo l’inalatore della marijuana lasciato sul sedile.
Christopher vive a Venice da tanto, ma sta per andarsene. Sembra innervosito dal passeggero sul sedile dietro, che puzza come un posacenere, armeggia con il telefono rumorosamente, non interagisce. Non mi sembra che il lavoro faccia esattamente per lui: una sensazione che a volte danno anche alcuni tassisti. A un certo punto però se ne esce con questa battuta: “Se devi morire per strada a Venice beach, non è per l’accoltellamento di un criminale o un tossico come un tempo: è uno di questi milionari che ci vivono adesso che ti investe con la sua Range Rover mentre è distratto perché sta twittando”.
Una mattina viene a prendermi James, che è di Santa Fe. Quando salgo davanti, sta parlando con la ragazza sul sedile dietro di reiki da fare agli animali. Reiki da fare agli animali: dice che lui lo fa spesso alla sua barboncina nana. È evidente che Uber pool è ancora un servizio per giovani e sperimentatori, perché, a occhio, come argomento il reiki per barboncini è meno diffuso dei crateri di Mercurio.
Recapitata la ragazza, proseguiamo come in gita, guidando con calma nei quartieri residenziali, a spasso con Daisy, in direzione downtown. James dice che Santa Fe è molto bella, più di Albuquerque, e ci vivono un sacco di coppie lesbiche. Essendo ipnotista diplomato (ripeto: ipnotista diplomato), James vorrebbe fare dei corsi di logopedia per avere una voce meno gracile: “Al telefono sembro la rana Kermit!”, mi dice. Questa specie di film di Wes Anderson al rallentatore, per quanto stupefacente, mi fa perdere un’ora di tempo. Quando scendo, do un voto basso a James: va bene freak, ma le strade le devi sapere se non ti fidi delle app.
Los Angeles è troppo estesa e piena di automobili per basarsi solo su auto pubbliche
Alfonso è figlio di una coppia del Guatemala. Quando salgo c’è Francesca a bordo. Francesca è italiana. I suoi vengono dalla Campania e dall’Abruzzo. Francesca è cresciuta a Boston ma adesso sta qui. Con Alfonso si parla dell’Italia, che lui conosce bene dal punto di vista alimentare, perché ha lavorato da Grom. In genere Alfonso ha le idee molto chiare: “Sono di prima generazione, quindi faccio lavori come questo. Se fossi di seconda generazione, potrei fare l’avvocato. Forse i miei figli, chissà”. Alfonso mi dice che con Uber si guadagna abbastanza bene solo se si investono mezzi e tempo.
Servizi come questo accorciano la città. Los Angeles è troppo estesa e piena di automobili per basarsi solo su auto pubbliche. Nelle ore di punta Uber alza le tariffe e alza le percentuali, così da soddisfare la domanda. Kimberly, con cui ascoltiamo il programma di Howard Stern alla radio, mi dice che lei non guida molto. Ma quando salgono le paghe, se la app le propone di mettersi alla guida e può, si fa qualche ora di lavoro finché non è stanca. La figlia è al college, lei ha appena divorziato, e se non si tiene occupata un po’ così, finisce che si deprime.
In otto giorni a Los Angeles ho speso circa 150 dollari usando Uber pool.
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