30 gennaio 2014 17:39

Vi tagliamo il salario, vi aumentiamo i ritmi di lavoro, e in cambio licenziamo solo 850 operai invece di cacciare tutti quanti. È questa l’offerta fatta da Electrolux ai suoi dipendenti in Italia: pur di mantenere il posto (neanche tutti) dovrebbero accettare stipendi da fame per un lavoro ben più pesante di prima.

Non ci sono alternative, spiega il management: il costo del lavoro in Italia supera i 24 euro all’ora, mentre negli stabilimenti polacchi o ungheresi della multinazionale svedese sta sotto i dieci euro. Il messaggio è devastante: sono passati i tempi in cui trattative sindacali potevano mirare a una crescita del salario, facendo partecipare i lavoratori all’aumento della produttività. Oggi si “tratta” solo per tagliare, per delegare al contratto collettivo nazionale, per cassare quanto era fissato nel contratto aziendale. Le contropartite? Direttamente non ci sono, a parte la gentile concessione di continuare a far lavorare i dipendenti se e quando accettano il peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro.

L’Electrolux afferma che non ci sono alternative. In questa logica l’Italia, ancora oggi il secondo produttore industriale d’Europa, ha un futuro solo se accetta di diventare un paese a bassi salari. A suo modo questo approccio ha una sua logica, visto che l’industria italiana deve fare i conti con tre shock esterni che a loro volta si cumulano.

Il primo è stato senz’altro la globalizzazione. Non a caso Electrolux cita i competitor asiatici, Lg e Samsung, che inondano i mercati mondiali con i loro elettrodomestici di buona qualità a prezzi contenuti.

Il secondo shock è rappresentato dalla completa integrazione dei mercati europei, accompagnata dall’ingresso dei paesi dell’est dopo il crollo del muro. In Polonia e Ungheria i salari sono decisamente più bassi, un ottimo motivo per le multinazionali per spostare produzioni in quei paesi.

Infine l’Italia (ma anche la Francia) è stata colpita da un terzo shock: l’euro. La moneta unica ha chiuso la valvola delle svalutazioni, in passato utilissime per riguadagnare competitività. Peggio: le politiche di austerità hanno causato una pesante recessione che ha reso più esplosiva una situazione già in partenza preoccupante.

Infatti il declino dell’Italia come produttore industriale non comincia - e non è causato solo - dalla crisi dell’euro. È l’effetto combinato dei tre shock che ha messo l’industria italiana in serie difficoltà. Già cresceva pochissimo dagli anni novanta in poi. Dopo il 2007 invece è cominciato un vero e proprio declino: la produzione industriale rispetto ai tempi pre-crisi è scesa di più del 20 per cento; Confindustria calcola che il paese ha definitivamente perso il 15 per cento delle sue capacità produttive nell’industria.

In tutto ciò l’Ue predica il mantra della “reindustrializzazione” del vecchio continente, mentre l’Italia corre il serio rischio di una pesante deindustrializzazione. E l’Electrolux offre la ricetta cara alla schiera degli economisti neoliberisti: la cosiddetta “svalutazione interna”. Se non si può influenzare il valore della moneta, rimane soltanto una via di uscita: abbattere i costi rendendo il fattore lavoro più economico.

In altre parole: gli operai dovrebbero lavorare per “salari polacchi”, anche se vivono in un paese dove si pagano prezzi “italiani”. Può darsi che una politica del genere garantisca il futuro delle fabbriche Electrolux in Italia. Ma per l’Italia scegliere questa via per uscire dalla crisi vuol dire accettare l’impoverimento non solo degli operai, ma di tutto il paese.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it