26 aprile 2016 13:30

Mai e poi mai! Questa è stata la risposta, alquanto frettolosa, del governo tedesco alla proposta di un “migration compact”, lanciata da Matteo Renzi. Una risposta partita quasi in automatico perché il presidente del consiglio italiano ha lanciato l’idea di finanziare corpose politiche di intervento in Africa attraverso l’emissione di eurobond, o eurobbligazioni.

Parlare di eurobond – cioè di titoli di debito pubblico emessi in comune dai 19 stati dell’eurozona – per gran parte dell’opinione pubblica tedesca è come bestemmiare in chiesa. Peccato che la Germania con questa reazione, ormai pavloviana, perda l’occasione di valutare più da vicino le proposte di Renzi.

È sotto gli occhi di tutti che l’Europa rischia di avvitarsi di fronte alla crisi di rifugiati e migranti, causata dall’afflusso crescente di persone in arrivo dalla Siria e dall’Iraq, dall’Eritrea, dalla Nigeria o dal Gambia verso il vecchio continente. Si parla molto di “soluzioni comuni”, si ventilano politiche europee sia per il controllo delle frontiere sia per la suddivisione dei profughi tra gli stati dell’Unione, ma nel frattempo ognuno cerca la “sua” via nazionale, orientata a limitare il danno in casa propria.

Una situazione asimmetrica

Queste politiche però rispecchiano una situazione del tutto asimmetrica. C’è chi può sperare di chiudere le frontiere, limitando al massimo l’afflusso, e c’è chi rimane con il cerino in mano: i paesi di primo arrivo, in particolare la Grecia e l’Italia.

I numeri degli ultimi due anni sono chiari. Nel 2014 in Italia sono arrivate via mare 170mila persone, tra cui 80mila siriani ed eritrei; nel 2015 la cifra è scesa a 153mila, mentre in Grecia, nello stesso anno sono arrivati 800mila profughi. Secondo le ferree regole degli accordi di Dublino tutte quelle persone avrebbero dovuto presentare richiesta di asilo nel primo paese di arrivo, rimanendo lì.

Invece c’è stata una messa in comune di fatto. Gran parte delle persone arrivate negli ultimi anni in Italia hanno preso la via del Nordeuropa. Nel 2014, 64mila dei 170mila approdati sulle coste italiane hanno fatto domanda di asilo, nel 2015 il numero è salito a 83mila; gli altri si sono spostati in Svezia o in Germania. In misura anche maggiore lo stesso processo ha avuto luogo in Grecia: chi è arrivato lì ha cercato di spostarsi immediatamente attraverso la rotta dei Balcani verso il Nordeuropa.

In un primo momento l’Europa ha cercato di intervenire introducendo le quote di ricollocazione dei profughi, promettendo a Italia e Grecia di portare più di centomila siriani, eritrei e iracheni negli altri paesi, mentre i due stati di primo arrivo si sono impegnati a identificare tutti i profughi negli “hotspot”. Ma la politica di ricollocazione non è mai decollata: fino a oggi sono poche centinaia i rifugiati trasferiti.

Il piano italiano prende atto che siamo di fronte a un fenomeno permanente in cui si incrociano flussi di profughi e flussi di migranti

Intanto le frontiere della Grecia verso nord sono chiuse e l’Italia rischia la stessa evoluzione: l’Austria ha già annunciato di voler sbarrare il Brennero se dovesse arrivare un numero cospicuo di rifugiati e migranti. Ma a differenza dei greci, gli italiani avrebbero problemi ben maggiori nel chiudere a loro volta le frontiere verso sud. In questo caso, infatti, non ci sarebbe la Turchia con cui prendere accordi ma uno “stato fallito” , la Libia, dove le stesse milizie sono attive come trafficanti di esseri umani.

Perciò adesso molti ipotizzano uno spostamento dei flussi dalla Grecia verso l’Italia. Al momento questo processo non sembra in atto. Fino al 20 aprile 2016 gli arrivi in Italia sono stati circa 24mila. Ma tra quelle persone sono quasi del tutto assenti le nazionalità dei profughi finora diretti in Grecia: siriani, iracheni, afghani. In Italia arrivano nigeriani, gambiani, senegalesi.

Strumenti nuovi

Dunque, per la prima volta l’Italia corre il rischio di trovarsi di fronte a un notevole numero di profughi e migranti senza più la valvola delle frontiere aperte verso nord. Il governo Renzi ha quindi tutto l’interesse a mettere la questione sull’agenda europea: questa volta infatti rischia davvero di “rimanere solo”. E a ben vedere il “migration compact” sembra tutt’altro che insensato. Prende atto del fatto che l’Italia e l’Europa si trovano di fronte a un fenomeno niente affatto passeggero in cui s’incrociano flussi di profughi (persone che scappano da guerre e persecuzioni) e flussi di migranti.

“Combattere le cause” dietro a questi flussi: quella frase risuona spesso, ma finora è rimasta un’affermazione vuota. Il “migration compact” invece cerca di declinare questo concetto in modo più serio, proponendo massicci interventi europei nei paesi africani, ma anche canali legali di accesso per migranti: infatti, in mancanza di una politica di immigrazione, chi oggi vuole dirigersi in Europa può solo affidarsi ai trafficanti di esseri umani e poi dichiararsi “rifugiato” anche quando non lo è.

Certo, un intervento europeo come quello delineato dall’Italia costerebbe miliardi. Ma anche lasciare le cose come stanno ora costa miliardi: la sola Germania ne spenderà, nell’anno in corso, circa dieci per l’accoglienza. Allora perché non ragionare su strumenti nuovi, invece di impiccarsi alla parola eurobond?

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