28 giugno 2011 11:29

Libri letti

Unfamiliar fishes, Sarah Vowell

Norwood, Charles Portis

Gli imperfezionisti, Tom Rachman

Mr. Gum and the power crystals, Andy Stanton

Mr. Gum and the dancing bear, Andy Stanton

Libri comprati

•* Highbrow/Lowbrow*, Lawrence Levine

Nobrow, John Seabrook

The education of Ronald Reagan, Thomas W. Evans

The hardest working man: how James Brown saved the soul of America, James Sullivan

London belongs to me, Norman Collins

La mia amicizia con la scrittrice Sarah Vowell – appassionata di storia, star della radio e della televisione, a volte anche personaggio dei cartoni animati – risale a quindici anni fa. Per i primi dieci anni o giù di lì è stata un’amicizia molto semplice e diretta: ogni volta che andavo a New York, ci sedevamo in un parco a guardare la statua di una figura oscura ma presumibilmente importante della storia americana, e lei me ne parlava mentre io mi limitavo a fumare e annuire. Nel corso degli ultimi anni, però, il nostro rapporto si è complicato al punto che ha cominciato a somigliare a uno di quei miti greci in cui una dea enigmatica e implacabile (lei) o una crea­tura mostruosa (sempre lei) chiede all’eroe (in questo caso, io) di compiere un’impresa. In Gran Bretagna Vowell non è conosciuta come meriterebbe.

Quindi, essendo io uno dei suoi pochi ammiratori britannici, ho sempre affrontato in prima persona le sfide letterarie che lancia dalla sponda opposta dell’Atlantico. Nella mia mente funziona così: io le dico che sono un grande ammiratore del suo lavoro e lei mi fa: “In questo caso, scriverò un libro sui musei dei presidenti americani assassinati, salvo quelli più recenti, cioè gli unici che potrebbero interessarti. Lo leggerai?”. L’ho letto, l’ho adorato e gliel’ho detto. E lei: “Vedo che sei un bell’osso duro inglese. Vuol dire che dovrò impegnarmi ancora di più. Ti farò leggere un libro sui padri pellegrini: non quelli di Plymouth, ma quelli meno noti (e più bacchettoni) della baia del Massachusetts”. L’ho letto, l’ho adorato e le ho chiesto di propormi qualcosa di un po’ meno facile.

Ora è tornata alla carica con Unfamiliar fishes, una storia delle Hawaii, che ovviamente non è una storia completa delle Hawaii, perché una storia completa delle Hawaii non avrebbe intimidito in misura sufficiente il lettore inglese e avrebbe potuto contenere qualche divertente aneddoto su Bette Midler. Saggiamente, Vowell ha scelto di concentrarsi sul diciannovesimo secolo, dopo il 1820, quando i suoi vecchi amici del New England circumnavigavano l’intero continente americano per andare a dire ai nativi che tutto quello in cui avevano creduto fino a quel momento era sbagliato (tra le molte cose a cui non avevo mai pensato prima di leggere Unfamiliar fishes c’è la totale inutilità del New England come base dei missionari. Ci mettevano sei mesi per arrivare in qualsiasi posto che fosse abbastanza primitivo da avere bisogno di loro).

Unfamiliar fishes racconta la storia della battaglia per conquistare anima e corpo degli indigeni combattuta da quei guastafeste del Massachusetts. In queste guerre, la coscienza liberale ci porta sempre a fare il tifo per gli indigeni, anche se sappiamo che ci aspetta un’immancabile delusione e che quegli indigeni, chiunque e ovunque siano, oggi s’ingozzano di Happy Meal, ascoltano Adele e lavorano per la Halliburton. Gli hawaiani, però, credevano fermamente che il figlio nato dall’unione di fratello e sorella fosse superiore al figlio concepito in qualsiasi altro modo. E questo intorbidava un po’ le acque, secondo me. Lo so, lo so: altri tempi, altre culture. Ma io ho una sorella, e forse anche voi avete fratelli o sorelle con un apparato genitale che funziona in modo completamente diverso dal vostro. Se è così, potreste avere qualche difficoltà a fischiare la squadra dei cristiani invadenti con la foga che ci mettete di solito in situazioni analoghe.

Eppure, come osserva Vowell, l’idea di regalità poggia interamente sulla convinzione che un lignaggio sia superiore a un altro, e che quindi debba essere preservato. “Per impedire la contaminazione si ricorre al matrimonio tra consanguinei che, naturalmente, conduce spesso alla fine della dinastia per sterilità, aborti, nascite di bambini morti e malattie. Questo vale per gli eredi di Keōpūolani come per quelli degli Asburgo”. In altre parole, una delle ragioni per cui il mio paese è ridotto così è che non ci sono stati abbastanza matrimoni tra consanguinei: altrimenti, ci saremmo sbarazzati da un pezzo della nostra famiglia reale. L’incesto è più complicato di quel che sembra (e vi autorizzo a farvi stampare questo slogan su una maglietta, se vi convince). Ha i suoi pro e i suoi contro, come tutto il resto.

L’unica squadra con cui possiamo tutti simpatizzare, in Unfamiliar fishes, è l’equipaggio della baleniera inglese John Palmer. I missionari interferivano sul diritto inalienabile dei marinai di ricevere prostitute a bordo e loro erano così infastiditi che cominciarono a bombardare il porto dove la nave aveva attraccato. Eppure, anche se un po’ a malincuore, nutro un certo rispetto per quegli americani convinti che gli hawaiani avessero assolutamente bisogno di una Bibbia e che contribuirono per primi a inventare una lingua hawaiana scritta, in cui poi tradussero il libro sacro dal greco e dall’ebraico originali. Ci misero diciassette anni. Finalmente, ora so cosa potrei fare quando andrò in pensione. Comunque, ho portato a termine un’altra delle imprese assegnate dalla dark lady dei nerd d’oltreocea­no: non credo che sia capace di scrivere qualcosa che non leggerei, ma spero che non prenda questa affermazione per una provocazione. La sua storia della caccia alle balene nelle acque dell’isola, comunque, era così avvincente che mi ha spinto a leggere il primo capitolo di Moby-Dick.

L’idea di questa rubrica, per chi fosse arrivato tardi, è che scrivo di quello che ho letto il mese prima. Non so perché, i libri che leggo con i miei figli non sono mai inclusi. In questi ultimi due mesi, però, la sera, prima di dormire, abbiamo letto la serie di Mister Gum di Andy Stanton e siccome i libri di Stanton mi danno la stessa gioia che danno ai miei figli, non vedo come potrei escluderli. Mister Gum è un vecchio malvagio, arcigno e puzzolente che cerca di avvelenare i cani. Il suo miglior amico è il perfido macellaio Billy William III, e i suoi nemici sono la strepitosa Polly, Friday O’Leary e il miliardario Alan Taylor, un omino di pan di zenzero dotato di muscoli elettrici. I libri di Stanton sono il prodotto del felice connubio, sufficientemente non incestuoso, tra Roald Dahl e i Monty Python, e sono un vero spasso: Stanton ha un’immaginazione eccentrica e fa giochi di parole sconclusionati e anarchici che ogni tanto trascinano la narrazione in direzioni inaspettate anche per l’autore.

L’enorme divertimento dei miei figli è stato reso ancora più intenso dalla straordinaria lettura di queste storie che fa il loro papà. Lettura che, almeno nella sua mente, è paragonabile solo a quelle che Dickens teneva in pubblico: Billy William iii parla come una versione malvagia del grande attore comico inglese Kenneth Williams, e Mister Gum come un vecchio malavitoso cockney. Trovo assurdo che rappresentazioni di questo livello si tengano sera dopo sera in una camera da letto, davanti a due soli spettatori: forse dovrebbero essere aperte al pubblico. Se anche voi, come me, siete stati mandati a quel paese da figli maschi ancora piccoli, saprete già che hanno un rapporto difficile con i libri. E questo indipendentemente dalla presenza in casa di un modello maschile che gira con il naso incollato a una storia parziale delle Hawaii. I libri di Stanton hanno rappresentato una vera svolta, e sono la dimostrazione dell’importanza delle battute: stiamo per cominciare il settimo degli otto libri e già penso con terrore a un futuro senza Gum.

Non ho il coraggio di dire ai miei figli che più si diventa grandi e meno la letteratura diventa divertente. E non mi crederebbero mai se cercassi di spiegargli che c’è chi pensa che non ci sia posto per le battute nei libri seri. È inutile avvertirli che, se resteranno lettori, continueranno a deprimersi per una decina d’anni cercando “profondità” nella letteratura. Uno degli autori preferiti della redazione di The Believer è Charles Portis, anche perché prende sul serio il suo umorismo: il recente adattamento di Il grinta , dei fratelli Coen, ha molte qualità ma non rende la vena comica del romanzo, che nel libro è affidata soprattutto alla voce narrante di Mattie Ross, petulante e timorata di Dio. D’altra parte, sospetto che dobbiamo ringraziare i fratelli Coen se il primo romanzo di Portis, Norwood, è tornato in libreria. Il loro contributo alla comicità l’hanno dato lo stesso.

“Norwood” è Norwood Pratt, un marine che ottiene il congedo per tornare in Texas per prendersi cura di Vernell, la sorella in difficoltà. Ma Vernell sposa improvvisamente Bird, un reduce di guerra disabile e odioso. Il suo arrivo, però, lascia Norwood libero di partire per New York e andare a riprendersi i settanta dollari che ha prestato a un amico. È il racconto di un viaggio, con una struttura che lascia spazio a un’incredibile serie di stravaganti personaggi minori e a una quantità di dialoghi brevi, divertentissimi e spesso assurdi. Ecco Norwood, su un autobus, che cerca di attaccare discorso con un bambino di due anni, Hershel Remley:

“Io dico che la lingua di questo bambino se l’è mangiata il gatto”, disse Norwood.

“Di’, no che non me l’ha mangiata”, fece la signora Remley. “Di’, io parlo quanto mi pare e piace, signor Sconosciuto”.

“Dimmi come ti chiami”, fece Norwood. “Come ti chiami?”.

“Di’, Hershel. Di’, mi chiamo Hershel Remley”.

“Quanti anni hai, Hershel? Dimmi quanti anni hai”.

“Di’, ho due anni”.

“Fammi vedere con le dita…”, disse Norwood.

“Questo non lo sa fare. Però sa spengere un fiam­mifero”.

Quante cose da amare ci sono, qui dentro: il ritratto del bambino che certamente non è molto sveglio, l’orgoglio disperato e testardo della signora Remley, l’orecchio spietato dell’autore per la disastrosa antropomorfizzazione parentale. Questo è il terzo romanzo che ho letto di Charles Portis, e ormai sono assolutamente convinto che sia un genio comico sottovalutato. Ed eccovi una notizia curiosa: Nora Ephron, nel suo ultimo libro I remember nothing, racconta di aver avuto una storia con Portis negli anni sessanta. Il rapporto evidentemente non è durato, ma ci si sente come se ci fossero loro figli dappertutto.

Gli imperfezionisti di Tom Rachman, che probabilmente avrete già letto, è un’opera di narrativa molto ben congegnata, che racconta la storia di un quotidiano in lingua inglese con sede a Roma attraverso una serie di brevi storie collegate tra loro, di cui sono protagonisti i giornalisti e gli impiegati della redazione. Questo, secondo me, lo rende più una raccolta di racconti che un romanzo, nonostante l’audace affermazione in copertina (“Un romanzo”). Mi ha dato un po’ fastidio essere fuorviato, anche se per motivi assolutamente indifendibili: per quanto io non sia affatto invecchiato fisicamente in questo ultimo quarto di secolo – lo so, è incredibile – ho sviluppato una certa insofferenza senile per le raccolte di racconti. Com’è possibile? L’insofferenza per i racconti è un segno d’invecchiamento, come le macchie scure sulla pelle? E se sì, perché?

Quando la fine della vita si avvicina, conviene senz’altro sposare la forma narrativa breve, anziché disprezzarla. Eppure, non avevo la minima voglia di fare uno sforzo emotivo all’inizio di ogni capitolo, e quasi mi pareva di sentirmi brontolare come faceva mia nonna: “Chi sono questi qui, adesso? Non li conosco. E dove sono finiti quegli altri? Erano appena arrivati”. A onore di Rachman e del suo senso del ritmo narrativo, devo dire che dopo un paio di pagine l’avevo già perdonato. E a metà del libro mi sono reso conto che quello degli espatriati è un mondo ricco di possibilità narrative: i personaggi sono, quasi per definizione, smarriti, irrequieti, insoddisfatti. Proprio come piacciono a noi.

Sento di non potervi lasciare senza spiegare alcuni dei titoli più sconcertanti nella colonna dei libri comprati. Highbrow/lowbrow di Lawrence Levine mi è stato consigliato, insieme a Nobrow di John Seabrook, da un lettore che pensava che potesse aiutarmi a risolvere alcune delle complesse questioni sollevate dal saggio di Carl Wilson su Céline Dion. Il libro sugli anni di Ronald Reagan alla General Electric l’ho comprato dopo aver visto un avvincente documentario su Reagan alla Bbc. Temo che le probabilità che io ne legga anche uno solo siano scarse: ma come spesso accade in questi casi, ci tengo a mantenere, con una spesa relativamente modesta, la ridicola illusione della mia curiosità intellettuale. Di James Brown ne so già anche troppo, quindi probabilmente il prossimo libro che sceglierò sarà quello.

Traduzione di Diana Corsini

Internazionale, numero 903, 24 giugno 2011

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