09 gennaio 2016 16:32

Mi piacerebbe parlarvi della violenza in rete. Non quella dei terroristi o dei fanatici di professione, ma quella delle “persone normali”.

Perché internet ci trasforma in mostri sanguinari?

Proverò a offrire qualche spunto di riflessione partendo da due casi di cronaca, vi racconterò di un mio infortunio privato, infine spero di avere abbastanza forza da spingere il discorso verso un azzardo e una scommessa.

Sulle abitudini dei troll sono stati scritti libri, sono stati interpellati sociologi, psicologi, esperti di comunicazione. Negli ultimi mesi si è molto discusso per esempio di I giustizieri della rete. La pubblica umiliazione ai tempi di internet, il saggio del giornalista britannico Jon Ronson edito in Italia da Codice (Internazionale ha pubblicato un estratto del libro nel numero 1108).

Può la sete di giustizia scatenare una reazione mille volte più violenta dei comportamenti che vorrebbe censurare? E quale giustizia è quella che agisce rispolverando l’antico strumento della gogna? Questi sono gli interrogativi sollevati da Ronson, quando – tra i vari oggetti della sua riflessione – ricostruisce il caso di Justine Sacco, la responsabile della comunicazione di una grossa azienda statunitense che, in seguito a un tweet razzista inviato dall’aeroporto di Heathtrow prima di imbarcarsi per il Sudafrica, si ritrovò in pochi giorni licenziata e con la reputazione fatta a pezzi al livello planetario.

Il problema – parafrasando Giorgio Gaber – non è il troll in sé, ma il troll in me

Anche se Sacco aveva solo 170 followers, il suo tweet era diventato virale mentre era in volo verso Città del Capo. I messaggi contro di lei avevano alimentato un gorgo di insulti sempre più furibondi, selvaggi, scomposti, risentiti. La voce di una persona contro quella di migliaia. E anche se il tweet che aveva innescato la gogna era particolarmente odioso e stupido (“Sto andando in Africa. Spero di non prendere l’aids. Sto scherzando. Sono bianca!”), la stupidità della tempesta che ne è seguita è stata addirittura superiore.

Non solo le punizioni che i volenterosi censori auspicavano per la “colpevole” rischiavano di far passare per moderati i vecchi boeri favorevoli all’apartheid, ma la paradossalità di certi ragionamenti risultava disarmante. Avete presente quei pacifisti che si proclamano tali quando affermano di voler vedere morire chi è a favore della pena di morte? Il tutto, naturalmente, in nome della civiltà e della dea ragione.

Il problema, fa notare Ronson, è che in questi casi il troll assetato di sangue non veste i panni del nazista ma del bravo democratico in lotta per una giusta causa. Non è un disoccupato che la notte esce di casa alla ricerca di immigrati da incendiare, ma una tranquilla professoressa di liceo che si reca ogni mattina a scuola. Non ha il poster di Anders Breivik nella cameretta ma sfoggia un primo piano di Martin Luther King come immagine del suo profilo Facebook.

Il problema – parafrasando Giorgio Gaber – non è il troll in sé, ma il troll in me. Anzi, mentre al troll attribuiamo erroneamente una personalità stabile – un essere ributtante 350 giorni all’anno – qui si tratta di gente “normale” che ogni tanto perde il lume della ragione. Così, meglio parlare di dottor Jeckyll e mister Hyde 2.0.

Assai più circoscritta del caso Sacco – eppure per certi versi altrettanto significativa – è la tempesta di insulti che si è abbattuta qualche settimana fa su Aldo Nove in seguito alla tristissima vicenda di Luigino D’Angelo, il pensionato morto suicida dopo aver perso centomila euro nel dissesto di Banca Etruria. Lo scrittore aveva commentato l’accaduto sulla sua pagina Facebook così:

Questa cosa di chi si suicida perché ‘ha perso tutti i risparmi’ mi lascia raggelato. Da parte mia non ho mai ‘messo da parte’ nulla e preso atto di questo credo che non mi suiciderò perché oggi devo vedere una bella ragazza, un ottimo musicista e imparare nuove forme di meditazione sul respiro. Che cazzo sono sti ‘risparmi’? Se la religione è l’oppio dei popoli, il culto dei soldi ne è il cianuro.

Il ragionamento di Aldo Nove non seguiva magari rigidamente una logica di empatia universale (le brutte ragazze e i musicisti dal talento limitato sono colpevoli di qualcosa rispetto al tema del suicidio?), poteva risultare grossolano perché usava argomenti generici per giudicare una vicenda unica e irripetibile quale quella di ciascun essere umano (chi ci assicura che quei soldi non servissero al pensionato a realizzare il sogno della sua vita? O a curare una persona malata?). Ma al tempo stesso era abbastanza provocatorio da meritare una discussione, poiché poneva una domanda che nessun discorso ufficiale sulla vicenda aveva avuto fino ad allora il coraggio di sollevare: sono più colpevoli le banche che ti riducono sul lastrico o quelli che si uccidono per ragioni legate ai soldi? E non è la forma mentis dei secondi (stimare la propria stessa vita in termini economici) ad alimentare il potere delle prime?

Comunque la pensiate, le risposte al post di Nove, le centinaia di messaggi violenti che ne hanno sancito la lapidazione telematica difendevano a parole una posizione di fragilità (lo stato di prostrazione in cui si trova chi si toglie la vita) dimostrando al tempo stesso una inconciliabile (rispetto alle istanze di cui si facevano portatori) assenza di sensibilità nei confronti del lapidato.

Da una parte la difesa della persona umana contro chi voglia trattare superficialmente il mistero che rappresenta, nel quale riposa anche l’eventualità di un suicidio. Dall’altra, la trasformazione dell’accusato in una “non persona” contro cui si può dire di tutto. Si brandisce la dichiarazione dei diritti umani (o il corpo di un suicida) per sentirsi liberi di comportarsi come l’Eichmann della porta accanto a cui nessuno ha mai impartito un ordine in tal senso. Il tutto, naturalmente, senza mai uscire dalla sfera del virtuale.

Ad Aldo Nove sono state augurate sciagure di ogni tipo: malattie, indigenza, morte violenta. Contro di lui sono stati scagliati gli insulti più sfrenati e le accuse più inverosimili. Una su tutte: quella di essere un ricco nullafacente protetto da una kasta che – di messaggio farneticante in messaggio farneticante – era auspicabile a un certo punto fosse come minimo il gruppo Bilderberg perché l’odio risultasse più intenso e giustificabile.

Ora, chiunque conosca la storia di Aldo Nove – che per alcuni aspetti lo stesso scrittore aveva trasfigurato in alcuni dei suoi libri – sa che il suo percorso privato e professionale è lontanissimo da quello che andavano tracciando con fantasiosa dedizione gli haters, tanto che Nove stesso si è sentito costretto qualche giorno dopo a pubblicare su Facebook quanto segue:

Ho perso mio padre a sedici anni. Mia madre a diciassette. La casa a diciotto. Ho avuto come eredità molti debiti. Ho finito il liceo lavorando: un po’ di tutto. Vivo in affitto in 35 metri quadri. Mi sono laureato pulendo il culo ai vecchi. Con i soldi guadagnati ho sempre pagato a malapena le spese. Per tutta l’università mi sono nutrito di pesce in scatola lavorando di giorno e studiando di notte. Mai avuto risparmi. Dentista a debito. Attualmente, per avere mollato la Mondazzoli prima di aver consegnato tutti i libri, possiedo, oltre a nessun risparmio, meno 36.000 euro.

Se gli haters di Justine Sacco erano riusciti a ottenere il suo licenziamento, quelli di Aldo Nove lo hanno spinto a rompere pubblicamente (immagino con effetti anche dolorosi) il guscio del suo privato. Ovviamente non è servito a molto, visto che dopo qualche post uno dei lapidatori ha commentato: “Stai semplicemente cavalcando l’onda mediatica scatenata dal tuo fare la vittima”.

Ma immaginiamo che Aldo Nove fosse nato ricco e ammettiamo che avesse torto su tutta la linea. Come è possibile che si voglia lapidarlo in nome dell’empatia? E soprattutto: dal momento che qui il vero epicentro della vicenda è lo scandalo di Banca Etruria, perché nessuno degli haters di Nove ha messo un piede nel mondo reale investendo un decimo delle energie sprecate a digitare insulti per fare qualcosa di concreto contro lo strapotere degli odiati banchieri?

Non mi risulta che nessuno, per esempio, abbia partecipato a una delle iniziative promosse dagli obbligazionisti truffati. Non sarà che a muovere febbrilmente le falangi sulla tastiera è l’esigenza sempre più parossistica di avere qualcuno da fare a pezzi, purché ovviamente questo qualcuno legga i nostri messaggi – Christine Lagarde e Mario Draghi, presumibilmente, non lo faranno – e la sua colpa (una colpa a noi necessaria) ci illuda di conservare la coscienza immacolata?

I casi di Aldo Nove e Justine Sacco sono due gocce nel mare di odio a buon mercato da cui siamo circondati – non è difficile immaginare l’hater che appende il suo kalashnikov alfanumerico a un qualche tipo di muro e si reca mansueto al lavoro, o a far la spesa, o va a versare un assegno nella banca sotto casa dove tratta tutti con gentilezza.

Lapidatori telematici

Li ho scelti perché mi pare abbiano delle caratteristiche che si possono isolare per provare a capire cosa scatta nella testa del mister Hyde 2.0. Continuo con la metafora stevensoniana dal momento che il vero problema non è tracciare l’identikit del lapidatore telematico abituale, ma: che cosa ci succede quando, da quelle persone sensibili e civili che credevamo di essere, ci ritroviamo intrappolate nel cervello di un mostro primitivo? E: come mai, una volta cessata la lapidazione, rientriamo nei nostri ruoli sociali come se niente fosse dimenticandoci di aver scagliato la prima o la centesima pietra?

Mi sembra chiaro insomma che qui non si stia discutendo del sacrosanto diritto di critica, che la rete avrebbe reso finalmente accessibile a tutti, sciogliendolo dai legacci dell’informazione tradizionale, bensì del fatto che, così facendo, lo ha trasformato molto spesso nel diritto a spaccare virtualmente la faccia al prossimo.

Come in tutti gli spettacoli in cui ci si eccita davanti ai bagni di sangue altrui, qualcuno ci guadagna

Al fine di non perdermi, provo a procedere per punti.

Primo. Un essere umano altrimenti frequentabile diventa all’improvviso un concentrato di stupidità e violenza. A un certo punto, lo sorprendiamo mentre si aggira nei labirinti telematici con la bava alla bocca e una pietra stretta in mano. Gli domandiamo: “Ehi, che ti succede?”. Lui risponde ringhiando di aver deciso di scendere in campo in nome della giustizia, farfuglia di valori democratici che secondo lui sono stati violati. Usa l’avambraccio per pulirsi un po’ di bava. Poi dice: “Scusa, ho da fare”. Scompare dietro l’angolo. Subito dopo sentiamo un colpo sordo seguito da un urlo strozzato di dolore. La prima pietra è scagliata.

Secondo. Subito dopo la trasformazione, tutti i comportamenti del mister Hyde 2.0 (lo stato di furibonda eccitazione che promana da ogni virgola) fanno presumere che egli sia felice che il lapidato abbia commesso un errore, che abbia detto o fatto ciò che secondo lui giustifica il lancio delle pietre. È felice, per esempio, che Justine Sacco abbia scritto il tweet razzista. Non aspettava altro, perché questo lo fa sentire libero di brandire la clava, di bere il sangue del nemico sollevando con due mani la coppa ricavata dal suo teschio.

Michael H, Getty Images

Terzo. La violenza è contagiosa. Più è stupida, più è virale. Ecco che a ogni retweet, a ogni condivisione, a ogni endorsement della propria follia omicida, il mister Hyde 2.0 si sente sempre più galvanizzato, più protetto, più giusto, più puro. Non importa che l’escalation di violenza raggiunga vette sempre più vertiginose. Non importa neanche se la clava è travestita da fioretto. I più scaltri tra i mister Hyde 2.0 (basti pensare a ciò che accade nell’ambiente letterario) travestono di raffinato sarcasmo un’energia che, gratta e gratta, ha la stessa primitiva brutalità di chi ti insulta senza sentire il bisogno di citare anche Baudelaire.

Quarto. Il mister Hyde 2.0 non crede che dall’altra parte dello schermo ci sia un altro essere umano. La cosa, semplicemente, non gli sembra verosimile. E così trasforma e tratta il “colpevole” senza il quale non esisterebbe come una “non persona”.

Quinto. Il problema è che se il mister Hyde 2.0 si ritrovasse quel “colpevole” davanti nel mondo reale, non riuscirebbe a essere così violento. Il maleficio della regressione svanirebbe all’istante. Da una parte scatterebbe un antichissimo meccanismo inibitorio legato all’altrui e alla nostra fisicità (se insulto brutalmente chi mi sta di fronte, quello può arrabbiarsi e farmi male), dall’altra, si attiverebbe al tempo stesso un dispositivo più moderno e altrettanto salvifico: quello legato all’empatia, la consapevolezza che chi ci sta di fronte soffre e sanguina proprio come noi. Di conseguenza, se lo insultiamo con assoluta mancanza di pietà, nel suo sguardo ferito riconosciamo la nostra ferita potenziale, il nostro diritto a non essere calpestati in quel modo.

Sesto. Prova ne sia il fatto che quando il mister Hyde 2.0 si ritrova nei panni di chi subisce a sua volta un attacco violento si mostra di solito particolarmente addolorato, risentito, spiazzato e infine scandalizzato, incredulo che dall’altra parte dello schermo possano esistere simili mostri.

Settimo. Come in tutti gli spettacoli in cui ci si eccita davanti ai bagni di sangue altrui, qualcuno ci guadagna. Si paga un biglietto d’ingresso, ci sono degli sponsor, in certi giorni l’incasso è consistente. Ma quanto consistente? Se si trattasse di un incasso favoloso? E chi ne beneficia? Di certo non i lapidati. Ma neanche il pubblico, né i volenterosi mister Hyde 2.0, che a quanto pare potrebbero essere i servi sciocchi di tutta la faccenda.

Tra le mie debolezze, lo si sarà capito, c’è quella di osservare i social network al loro peggio

Prima di spiegare che cosa intendo per “servi sciocchi”, c’è bisogno che racconti un altro paio di storielle. Nella seconda, lo anticipo, non ci faccio una bella figura.

Tra le mie debolezze, lo si sarà capito, c’è quella di osservare i social network al loro peggio. È un po’ come per le risse televisive: più fanno schifo, più le guardi. Anche perché quell’oscuro scrutare certe volte è istruttivo.

Così, mesi fa, mi sono appassionato su Twitter alle esternazioni di una ragazza (o perlomeno, aveva un nickname femminile che chiameremo @dolcecandy) che ce l’aveva con un cantante famoso che chiameremo F. Non passava giorno che non lo insultasse. Insulti molto pesanti, al limite della diffamazione. Si andava da: “Non avete vomitato anche voi sentendo il nuovo album di F?” a “in un paese civile, F andrebbe appeso per le palle in un barile di merda”. Pochi accenni al perché F facesse tanto schifo. Rabbia cieca, malamente travestita da umorismo.

@dolcecandy, che inviava un numero di tweet cinquanta volte superiore ai suoi follower, ha portato avanti la sua crociata con una furia che neanche Jane Fonda quando si trattava di manifestare contro la guerra in Vietnam. In un mondo più giusto, secondo lei, F non avrebbe dovuto semplicemente esistere. Non almeno come personaggio pubblico. Non avrebbe dovuto suonare (se non in privato) e soprattutto non avrebbe dovuto avere fan. Questo, nella testa di @dolcecandy.

Nel mondo reale, F continuava piuttosto indisturbato il suo tour promozionale, vendeva una carrettata di dischi, riempiva i palasport, andava in tv, arricchiva il suo conto in banca.

Rispetto ai tempi in cui i fanatici mandavano le lettere ai giornali (che i giornali normalmente cestinavano), la differenza sta nel fatto che un tweet è subito pubblico, e renderlo noto sta alla sola responsabilità di chi lo scrive.

E, per quanto @dolcecandy avesse pochi follower, a F sarebbe bastato un piccolo peccato di vanità (digitare il suo nome d’arte sul finder di Twitter) per sapere di avere una nuova hater particolarmente dedita alla causa. Anche perché @dolcecandy, non contenta di scagliare le sue bombe nel vuoto, ha cominciato a taggare amici e personaggi pubblici. Ogni tanto otteneva un retweet, ogni tanto raccoglieva intorno a sé le risposte di gente contagiata dalla violenza (”appeso per le palle? Ma se non ce le ha!”). Non contenta – casomai non si fosse accorto di avere un avversario tanto temibile – è arrivata a taggare nei suoi insulti lo stesso F.

E infatti, dopo tutto questo spreco d’energia, dell’esistenza di @dolcecandy il nostro F deve essersene effettivamente accorto. Tanto è vero che a un certo punto l’ha bannata. E qui è successo (almeno per me) l’incredibile.

@dolcecandy si è offesa! Ha cominciato a lamentarsi, a scrivere che F era un antidemocratico che non sopporta le critiche, a reclamare attenzione come parte offesa e vittima di un’ingiustizia, perché F (questo impostore che si era fatto la villa con piscina a suon di pseudovalori progressisti messi in musica) l’aveva bannata. E, gonfia di una rabbia mascherata sempre più a fatica da sarcasmo, ha taggato a quel punto davvero chiunque, ed è così che io ne sono venuto a conoscenza, per poi ricostruire a ritroso la storia.

Fragili e nervosi

Tutto del bersagliante, nulla del bersagliato: dalla lettura di questa twitterstory ero riuscito a farmi un’idea abbastanza chiara del quadro clinico di @dolcecandy, mentre di F non sapevo nulla più di quanto non avessi intuito ascoltando le canzoni e leggendo le interviste.

Ma i tweet di @dolcecandy non avrebbero dovuto farmi aprire gli occhi su F? Al contrario, li avevo aperti sulla loro autrice. A un certo punto mi sembrava chiaro che @dolcecandy si considerava talmente inferiore a F da credere di avere un preciso diritto a essere ascoltata da lui, come un bambino rispetto al papà che non gli vuole bene, o come quei poveri disgraziati che ritengono di dover essere ricevuti dal presidente della repubblica (o magari dal papa) a cui addossano le colpe dei propri fallimenti.

Il problema però, checché ne dica chi vuole ridurre tutto alla formula dell’invidia altrui, è che questo tipo di violenza non si esercita solo dal “basso” verso “l’alto”. Cioè, per esempio, da un non famoso verso un famoso, come accadeva al Pumpkin di Re per una notte. È una violenza molto più imprevedibile, e trasversale.

Può capitare che direttori di riviste patinate si trasformino in troll per lo spazio di una ventina di tweet deliranti, e poi indossino di nuovo la giacca del bravo professionista e firmino come se niente fosse un brillante editoriale sul nuovo numero del loro giornale. È chiaro che quello scatto di violenza nasconde un problema, un disagio, magari un’insoddisfazione, un motivo di frustrazione. Potrebbe essere un traguardo che l’occasionale troll crede di non poter raggiungere attraverso un più alto uso dell’intelligenza (e che l’insulto gli dà solo l’illusione di lambire). Magari il direttore della rivista patinata riteneva di poter aspirare alla direzione di un grosso quotidiano, e il fatto che nessuno l’abbia chiamato per quel ruolo lo rende particolarmente fragile e nervoso.

E adesso è il mio momento di fare ammenda. Poco più di un anno fa, a poche settimane dall’uscita di un mio romanzo, ho cominciato a segnalare su Facebook i luoghi in cui lo presentavo. Devo dire che da questo punto di vista il social network di Mark Zuckerberg si è dimostrato utile. Non solo perché diversi lettori venivano agli incontri dopo aver consultato Facebook, ma anche molti inviti di librerie e circoli di lettura sono arrivati da lì. E certo, non tutti formulavano la richiesta nel modo che avrei voluto. In particolare, mi colpì negativamente uno che (con qualche interpolazione per non renderlo riconoscibile) recitava più o meno così:

Gentile Nicola Lagioia, ti scrivo a nome dell’associazione X con cui stiamo organizzando un piccolo festival letterario in provincia di Y. L’iniziativa è alla sua terza edizione. Prima di te abbiamo avuto autori importanti come X, W e Z. Amiamo molto i tuoi libri, e ci piacerebbe che venissi a presentare qui la tua ultima fatica. Ovviamente ci preoccuperemo di coprire le spese per il viaggio e una notte di pernottamento se dovessi decidere di fermarti a dormire. Qui siamo tutti molto eccitati, la lettura de Il lato oscuro del cuore ci ha entusiasmato molto e non vediamo l’ora che tu venga a presentarlo da noi.

Sarebbe andato tutto bene, se non fosse che Il lato oscuro del cuore è un romanzo di Corrado Augias.

Dopo aver finito di leggere, mi sono fatto una risata. Però tra i denti non c’era solo divertimento, ma anche un pizzico di delusione. Così d’istinto ho postato la lettera sulla mia pagina Facebook, senza aggiungere altro. Dietro l’invito a condividere l’aspetto buffo della situazione doveva nascondersi un subliminale incoraggiamento del dileggio, visti i commenti che sono cominciati ad arrivare. “Che peracottari!”, “Non ci posso credere”, “Uhahaaaaaha!”, “Vergognatevi”, “Benvenuti in Italia”, “Come si chiama questa associazione di dementi?”.

Nel giro di due o tre ore, tutte le sfumature che la derisione poteva contemplare erano state coperte. Più che vendicato, cominciavo a sentirmi in imbarazzo. I commenti sprezzanti erano dieci, poi venti, e le condivisioni due, cinque, quindici. Fino a quando il rappresentante dell’associazione X, vale a dire l’autore della lettera (che in realtà era un’autrice), è intervenuta anche lei lasciando un messaggio nella mia bacheca.

Gentile Nicola Lagioia e voi tutti che state commentando. È vero, abbiamo commesso un errore nel formularLe la nostra lettera d’invito, e ce ne scusiamo. Non è tuttavia nostra abitudine essere sciatti o trascurati. Mettiamo tutte le energie di cui siamo capaci nell’organizzazione di questo festival, senza peraltro (vorrei sottolinearlo) guadagnarci mai un euro. Abbiamo citato un titolo sbagliato, d’accordo. Ma il tenore di certi commenti è offensivo, oltre che ingeneroso e esagerato. Vedere la propria reputazione infangata in questo modo non è piacevole, credetemi.

È seguito qualche altro commento offensivo, qualcun altro vagamente derisorio. Altri commentatori hanno provato a buttarla in caciara. Io, da qualche minuto, stavo provando una sensazione molto diversa: mi sentivo una merda. Senza che la mia parte vigile se ne fosse resa conto – ma i bassi istinti dovevano averlo saputo – avevo cercato di dar vita a una lapidazione, e le mani altrui armate di pietre non si erano fatte attendere. Il tutto per un motivo irrisorio.

L’agorà permanente che per i ciberutopisti sarebbe dovuta diventare internet, rischia di ridursi a un’arena di gladiatori

Fosse pure stata gestita l’associazione X in modo sciatto, meritava due ore di terrorismo virtuale come punizione? Soprattutto, la mia parte più rozza e primitiva aveva preferito dimenticare che dietro la lettera d’invito c’era una persona in carne e ossa, un essere umano che, esattamente come me, era capace di soffrire, di sentirsi ferito dall’altrui brutalità.

A quel punto ho chiesto scusa per l’accaduto all’autrice della lettera e ho cancellato il post per evitare che arrivassero altri insulti.

È interessante, a distanza di tempo, provare ad analizzare nella maniera più precisa possibile cosa poteva avermi spinto a comportarmi in quel modo. La mia iniziativa era all’acqua di rosa rispetto a ciò che si può leggere ogni giorno sui social network. Ma il processo emotivo che mi aveva portato a postare la lettera dell’associazione X sulla mia bacheca segue forse – mutatis mutandis – percorsi che non riguardano solo me.

Che cosa era successo?

Era appena uscito un romanzo sul quale avevo duramente lavorato per molti anni; non avevo idea di come sarebbe stato accolto, se lo sforzo sarebbe stato, non dico ricompensato, ma almeno non totalmente vano; non potevo sospettare che il libro avrebbe avuto la fortuna che poi ha avuto, altrimenti avrei forse sorriso dell’errore e magari avrei risposto in maniera divertita al mittente, o non avrei risposto affatto; ero dunque in un momento di fragilità; un violento saliscendi emotivo – la lettera di qualcuno che dice di aver amato molto il tuo romanzo, ma lo confonde con quello di un altro – aveva acuito la sensazione; pur di non affrontare con me stesso a viso aperto la suddetta fragilità, ho usato contro l’autrice di un errore la sempre più frequente arma del sarcasmo; per quanto, nel mio caso, fosse una sorta di sarcasmo muto; la gente, intorno a me, sembrava attendere solo un’autorizzazione, un motivo, per quanto futile, per gettare merda su qualcuno che, fino a un attimo prima, era un perfetto sconosciuto.

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Mai, come in questi frangenti, gli anni novanta così carichi di promesse sembrano lontani. L’agorà permanente che per i ciberutopisti sarebbe dovuta diventare internet, rischia sempre più spesso di ridursi a un’arena di gladiatori.

Se i mister Hyde 2.0 spendessero un decimo delle energie con cui adorano gli dèi della distruzione per rimboccarsi le maniche, per mettersi in gioco attivamente (e concretamente) a beneficio di ciò per cui dicono di battersi, vivremmo in un contesto di persone con un’autostima più alta, in cui succedono cose più interessanti. Ti fa schifo come funziona l’associazione culturale X? Bene, prova tu a crearne una che vada bene!

I contenuti sono in grande maggioranza gratis o quasi. Chi mette a disposizione i contenitori, invece, fa soldi a palate

Numero per l’ultima volta le mie riflessioni, e lo faccio arrivando alla parte, me ne rendo conto, più azzardata, discutibile e visionaria del discorso.

Primo. A scatenare la violenza, la regressione primitiva, lo scadimento nel mister Hyde 2.0 è spesso una delle passioni umane che in rete (e non solo lì) sta avendo in questi anni maggior corso: il risentimento.

Secondo. Non importa che a provare risentimento sia l’anonima fan/hater della pop star da un milione di follower o il direttore della rivista patinata che si trasforma a tradimento in troll. Non è importante quanti soldi tu abbia, che ruolo svolga, quante persone lavorino sotto di te. In rete, se non stai attento a controllare i tuoi borborigmi emotivi, suonerai sempre un po’ troppo risentito. Sentirai di meritare di più, o che qualcuno ti sta rubando qualcosa.

Terzo. Questo risentimento di fondo può nascere da tante situazioni. L’assenza della fisicità consentita da internet (lo abbiamo detto) può farci provare il brivido di comportarci come bestie in balia degli istinti primari senza che nessuna goccia di sangue sia versata.

Può essere il fatto che in un mercato zavorrato dalla crisi ognuno è spinto a credere di ricevere troppo poco rispetto agli sforzi che compie ogni giorno. E tuttavia può esserci anche altro. Per esempio, il fatto che qualcuno ti mette a disposizione un palcoscenico dove sei libero di esibirti ventiquattr’ore al giorno. Tu lo fai, ti esibisci, ricevi degli applausi. Lo spettacolo genera addirittura qualche spicciolo, che subito però svanisce. Non è nelle tue tasche, non in quelle del pubblico. Cos’è successo? Cominci a sentirti nervoso.

Quarto. Recentemente intervistato da Gianni Santoro per la Repubblica, il leader dei Radiohead Thom Yorke, alla domanda “da dove vengono oggi i maggiori profitti per un musicista?”, ha risposto stizzito:

Non lo so, ditemelo voi. Non ho la soluzione a questi problemi. So solo che si fanno soldi con il lavoro di molti artisti che non ne traggono alcun beneficio. Si continua a dire che è un’epoca in cui la musica è gratis, il cinema è gratis. Non è vero. I fornitori di servizi fanno soldi. Google. YouTube. Un sacco di soldi, facendo pesca a strascico, come nell’oceano, prendono tutto quello che c’è trascinando. ‘Ah, scusate, era roba vostra? Ora è nostra. No, no, scherziamo, è sempre vostra’. Se ne sono impossessati. È come quello che hanno fatto i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Anzi, quello che facevano tutti durante la guerra, anche gli inglesi: rubare l’arte agli altri paesi. Che differenza c’è?

Quinto. La rete è probabilmente il contesto in cui oggi si sconta la maggiore sproporzione economica tra chi mette a disposizione i contenitori e chi fornisce i contenuti. I contenuti sono in grande maggioranza gratis o quasi (si tratti dello sfogo astioso di @dolcecandy o dell’ultimo meraviglioso album di Sufjan Stevens). Chi mette a disposizione i contenitori fa invece soldi a palate. La musica è stata letteralmente fatta a pezzi da questo sistema di cose. Non è un caso che Thom Yorke e i Radiohead abbiano, per esempio, deciso di stare fuori dal circuito di Spotify.

Certo, sarebbe complicatissimo capire quanto del denaro generato da Facebook spetti a ognuno dei 1,4 miliardi di utenti che con i loro contenuti determinano la fortuna del social network. E tra l’altro, se il contributo di ognuno fosse economicamente quantificabile, non rischierebbe il meccanismo di andare a vantaggio dei produttori di post più populisti e beceri? Sta di fatto comunque che mentre il patrimonio di Mark Zuckerberg supera il prodotto interno lordo del Ghana, ai produttori di contenuti non va praticamente nulla, fossero anche il giovane Wittgenstein e il non più giovane Russell che rifondano su Facebook la filosofia del linguaggio.

Sesto. Quanto conta la “struttura” che rende possibile il nostro stare in rete rispetto alla nostra antropologia, alla temperatura emotiva dei nostri comportamenti? Mentre scriviamo un post, un tweet, o discutiamo in una chat, quanto è automaticamente influenzato il nostro umore (consapevolmente o meno) dalle regole profonde (meccanismi economici in primis) che determinano il funzionamento del contenitore che ci ospita? Al di là della nostra libertà di digitare un tweet, quanto è giusta e democratica, e libera, al livello di fondamenta, la struttura di internet?

Se la rete è destinata ad aumentare sempre più il suo potere, e cioè il suo peso economico e politico, non si dovrebbe auspicare nel ventunesimo secolo, per la galassia di internet, ciò che nel novecento è stato oggetto di lotta rispetto al mondo reale? Perché mai dovremmo accettare le regole della rete così come sono, se si tratta di regole anche ingiuste? In fondo non è questo che gli ultimi tre secoli di processi democratici ci hanno insegnato? Avere il diritto/dovere di spendersi per cambiare uno status quo che non ha alcuna intenzione di migliorarsi da sé.

Ammettiamo che i signori della rete esistano. Sono uomini da miliardi di dollari, che concentrano nelle loro mani un potere gigantesco. Concediamogli l’attenuante di essere degli oligarchi proprio malgrado, intrisi per formazione di controcultura californiana ma trasformati nei padroni della rete da circostanze che essi stessi non hanno potuto controllare fino in fondo. Pur immaginandoli mossi da buone intenzioni, ai loro interessi fanno più comodo un miliardo di utenti risentiti che si comportano come creature neandertaliane o un popolo di gente evoluta che usa internet in modo consapevole, intelligente e complesso? Le @dolcecandy e i mister Hyde 2.0 che si prendono a sputi e randellate nei corridoi virtuali non sono simili a quegli schiavi ai quali – per farli sentire liberi di qualcosa – era concessa ogni tanto la libertà di massacrarsi almeno tra di loro?

Settimo. D’accordo, abbiamo scherzato. Abbiamo letto troppe volte Philip Dick. Nulla di tutto questo è vero. E se una parte lo fosse? Cosa ci costa una scommessa pascaliana? Va bene, non è vero. Fingiamo che il web sia strutturalmente il migliore dei mondi possibili. Lo stesso: che senso può avere andarsene in giro nei panni di mister Hyde 2.0? Al costo delle sofferenze procurate al lapidato di turno, i lanciatori di pietre non traggono alcun vantaggio nel comportarsi in maniera dissennata.

Così la vera domanda è: tenendo conto dei privilegi offerti dal migliore dei mondi possibili – libertà d’espressione, gratuità, istantaneità, capacità di raggiungere persone lontane in un battito di ciglia – quali mondi non stiamo esplorando e quali possibilità ci stiamo precludendo comportandoci come i pazzi sanguinari che non aspiriamo a essere? Che cosa, in fin dei conti, stiamo perdendo nel non usare la rete per evolverci?

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