27 marzo 2003 00:00

In Iraq la forza militare più imponente della storia ha attaccato un paese molto più debole: la disparità di forze è enorme. Ci vorrà tempo prima che si possano valutare le conseguenze. Occorre dedicare ogni sforzo a ridurre i danni al minimo e fornire al popolo iracheno le enormi risorse che gli servono per ricostruire la società del dopo Saddam a modo suo, e non secondo gli ordini di un dominatore straniero.

Condivido il giudizio quasi universale secondo cui la guerra in Iraq aumenterà la minaccia del terrore e la produzione e l’uso di armi di distruzione di massa, a scopo di vendetta o di deterrenza. In Iraq l’amministrazione Bush persegue un‘“ambizione imperiale” che sta spaventando, a ragion veduta, il mondo intero ed emarginando gli Stati Uniti sulla scena internazionale. L’obiettivo dichiarato dell’attuale politica statunitense è affermare una potenza militare unica al mondo e impossibile da sfidare. È quindi possibile che in futuro gli Usa combattano a piacimento guerre preventive. Questi conflitti non servono a prevenire nessun pericolo reale. La categoria di guerra preventiva è completamente nuova, e serve a giustificare l’uso della forza per eliminare una minaccia inventata.

Questa politica apre la strada a una lotta prolungata fra gli Stati Uniti e i loro nemici. Alcuni nemici ce li siamo procurati con la violenza e l’aggressione, e non solo in Medio Oriente. Sotto questo profilo l’attacco americano all’Iraq esaudisce le preghiere di bin Laden. Per il mondo la posta in gioco è molto alta. Tanto per citare solo una delle molte possibilità, la destabilizzazione del Pakistan potrebbe far sì che qualche ordigno nucleare sia ceduto alla rete globale dei gruppi terroristici, i quali, con ogni probabilità, saranno rafforzati dall’invasione e dall’occupazione militare dell’Iraq.

È facile immaginare anche altre possibilità, non meno temibili. Ma le probabilità di un esito meno negativo esistono. Lo prova il sostegno che il mondo sta offrendo alle vittime irachene della tirannia brutale, dell’embargo assassino e della guerra. Un segnale promettente è che l’opposizione, prima e dopo l’invasione, è stata senza precedenti. Stiamo assistendo a una protesta popolare su vasta scala, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Inoltre il movimento per la pace si è mosso prima che cominciasse la guerra, e questo dimostra che è diminuita la disponibilità a tollerare aggressioni e atrocità: i movimenti degli ultimi quarant’anni hanno avuto un effetto civilizzatore.

Ormai, l’unico modo che hanno gli Stati Uniti per attaccare un nemico molto più debole di loro è architettare una colossale offensiva propagandistica che lo dipinga come l’incarnazione del male o come una minaccia alla nostra stessa sopravvivenza. È lo scenario disegnato da Washington per l’Iraq. Ma d’ora in poi i militanti pacifisti saranno molto più preparati a fermare il ricorso alle armi, e questo è significativo. L’opposizione alla guerra di Bush si fonda sull’idea che l’Iraq è solo un caso speciale di quell‘“ambizione imperiale” affermata con forza nella Strategia per la sicurezza nazionale del settembre scorso.

Per capire meglio la situazione forse è utile tornare alla storia recente. Lo scorso ottobre la natura delle minacce che incombevano sulla pace è stata sottolineata con efficacia al vertice che si è tenuto all’Avana in occasione del quarantesimo anniversario della crisi missilistica di Cuba, a cui hanno partecipato alcune personalità provenienti da Cuba, dalla Russia e dagli Stati Uniti. Essere sopravvissuti a quella crisi è stato un miracolo. Abbiamo appreso che il mondo fu salvato dal capitano di un sommergibile russo, Vassilij Arkhipov. Il capitano non obbedì all’ordine di sparare i missili nucleari contro gli Stati Uniti. Un ordine dato dopo che alcuni sommergibili russi erano stati attaccati da navi militari americane presso la linea “di quarantena” voluta da Kennedy. Se Arkhipov avesse eseguito l’ordine, il lancio avrebbe quasi certamente scatenato un botta e risposta in grado, come aveva detto Eisenhower, di “distruggere l’emisfero settentrionale”.

Questa rivelazione è quanto mai tempestiva, considerate le circostanze: quella crisi affondava le radici in azioni terroristiche internazionali che puntavano a un “cambio di regime”. Due concetti di gran moda oggi.

Gli attacchi terroristici statunitensi contro Cuba cominciarono poco dopo l’arrivo al potere di Fidel Castro e proprio Kennedy li accelerò con una vigorosa escalation, che non si fermò alla crisi missilistica ma andò oltre. Le nuove scoperte dimostrano con chiarezza i rischi terribili e imprevisti di attacchi rivolti contro un “nemico molto più debole” e finalizzati a un “cambio di regime”. Rischi che – non è esagerato affermarlo – potrebbero condannarci tutti a morte.

Gli Stati Uniti stanno battendo vie nuove e pericolose, nonostante un’opposizione mondiale pressoché unanime.

Washington ha di fronte a sé due modi per rispondere alle minacce provocate in parte dalle sue iniziative e dalle sue stupefacenti affermazioni. Il primo è cercare di dare ascolto alle proteste legittime. Il secondo è accettare di diventare un membro civile della comunità internazionale, rispettando l’ordine mondiale e le sue istituzioni.

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