29 settembre 2005 00:00

Non è facile capire le vicende umane. Per certi versi è più difficile che capire le scienze naturali. È vero che Madre Natura non dà risposte sicure, ma almeno non crea ostacoli alla comprensione. Nelle vicende umane, invece, bisogna individuare e smantellare le barriere erette dal potere e dalla sua ideologia, che per imporsi meglio attribuiscono caratteristiche diaboliche al nemico del momento. A volte hanno ragione, ma nella maggior parte dei casi il motivo che spinge il potere a chiedere l’eliminazione di un avversario che lo ostacola non sono certo i crimini da lui commessi.

Un esempio recente è Saddam Hussein, oggi bersaglio indifeso ma in precedenza dipinto come una terribile minaccia alla nostra sopravvivenza, che sarebbe stato responsabile dell’11 settembre e sul punto di aggredirci di nuovo. Pochi ricordano che nel 1982 l’amministrazione Reagan cancellò Saddam dall’elenco dei governi che appoggiavano il terrorismo.

Cominciò così la fornitura di aiuti militari, e non solo, a quel dittatore: un flusso durato per molto tempo, anche dopo le peggiori atrocità commesse da Saddam e la fine della guerra con l’Iran, e che comprendeva i mezzi per la fabbricazione di armi di distruzione di massa.

Individuare il “grande Satana” del momento non basta: bisogna anche sbandierare la propria nobiltà d’animo. In particolare, occorre spacciare l’aggressione e il terrore come atti di autodifesa. Così, nell’agosto del 1945, firmando la resa, l’imperatore giapponese Hirohito spiegava al suo popolo: “Abbiamo dichiarato guerra all’America e alla Gran Bretagna per il sincero desiderio di assicurare la sopravvivenza del Giappone e la stabilità dell’Asia orientale. Lungi da noi il desiderio di violare la sovranità di altri stati o perseguire l’espansione territoriale”.

La storia dei crimini internazionali è piena di sentimenti di questo tipo che non risparmiano neanche individui di grande intelligenza e integrità morale. Al culmine dei crimini britannici in India e in Cina, che conosceva bene, John Stuart Mill scrisse il suo saggio sull’intervento umanitario sollecitando Londra ad agire con vigore, benché fosse destinata a essere “additata al vituperio” degli europei, arretrati e incapaci di comprendere che l’Inghilterra “è una novità assoluta per il mondo”: una nazione che agisce “al servizio degli altri”, e che pur di dare pace e giustizia al mondo paga disinteressatamente un prezzo.

A quanto pare, quest’immagine di eccezionalità impregnata di senso della giustizia è universale. Nel caso degli Stati Uniti uno dei temi ricorrenti è la dedizione al compito di dare democrazia e indipendenza a un mondo che soffre. Nella vulgata proposta dagli esperti e dai mass media, la politica estera degli Stati Uniti è percorsa da due tendenze contrapposte: l’idealismo wilsoniano, fondato su nobili intenti, e il realismo spassionato, che ci fa vedere i limiti delle nostre buone intenzioni. Sarebbero le uniche due opzioni possibili.

Ebbene, quale che sia la retorica adottata, è difficile non dare ragione allo storico Arno Mayer, secondo cui l’America è dal 1947 fra i principali responsabili di “terrorismo di stato” e altri atti “da canaglia”, e ha provocato danni immensi “sempre in nome della democrazia, della libertà e della giustizia”. Per gli Stati Uniti, il nemico è da sempre il nazionalismo indipendente: un “virus”, tanto per citare la definizione che Henry Kissinger dette del socialismo democratico cileno nel 1970, quando Salvador Allende fu eletto presidente.

Quel virus andava estirpato, e lo fu: l’11 settembre 1973, data che molti in America Latina definiscono spesso “il primo 11 settembre”. Washington sostenne il regime di Pinochet ed ebbe un ruolo tutt’altro che marginale nel suo iniziale trionfo.

Questo è uno dei tanti, troppi esempi di “promozione della democrazia”, nel nostro emisfero e non solo. Adesso ci vogliono far credere che la missione delle forze americane in Afghanistan e in Iraq è di portare la democrazia. “Non è vero che i musulmani ‘odiano la nostra libertà’: piuttosto, odiano la nostra politica”, concludeva un rapporto pubblicato nel settembre 2004 dal Defense science board (Dsb), un gruppo di consulenti del Pentagono.

E aggiungeva che “quando la diplomazia statunitense parla di esportare la democrazia nelle società islamiche, l’iniziativa è vista né più né meno come un gesto ipocrita e interessato”. Agli occhi dei musulmani, proseguiva il documento, “l’occupazione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq non ha portato la democrazia, bensì caos e sofferenze”.

Non dovrebbe sorprendere, allora, che gli Stati Uniti siano molto simili alle grandi potenze del passato e del presente, che perseguono interessi strategici ed economici dei settori dominanti accompagnandoli con proclami retorici sulla loro straordinaria dedizione ai valori supremi. Di fronte al disastro in Iraq, una fiducia acritica nelle buone intenzioni non fa che rinviare quel cambiamento di rotta politica che oggi è disperatamente urgente.

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