19 gennaio 2006 00:00

Il presidente George W. Bush ha definito le elezioni irachene di dicembre “una pietra miliare nella marcia verso la democrazia”. Una pietra miliare lo sono davvero, ma non del tipo che piace a Washington. Vediamo i fatti, ignorando le dichiarazioni retoriche dei leader.

Bush e il premier britannico Tony Blair hanno invaso l’Iraq, con il pretesto, ripetuto ossessivamente, della presenza di armi di distruzione di massa. Poi il vero motivo dell’invasione è diventato la “missione messianica” di Bush di portare la democrazia in Iraq e in Medio Oriente. La causa della democratizzazione però è in contraddizione con il fatto che gli Stati Uniti hanno cercato in tutti i modi di impedire le elezioni in Iraq.

Il voto del gennaio 2005, per esempio, si è svolto grazie a una resistenza di massa non violenta, di cui l’ayatollah Ali al Sistani è diventato un simbolo (l’insurrezione violenta è una realtà del tutto indipendente da questo movimento popolare). È difficile dissentire dal Financial Times quando scrive, come ha fatto a marzo, che “il motivo per cui le elezioni si sono svolte è stata l’insistenza dell’ayatollah al Sistani, che si è opposto a tre piani delle autorità di occupazione di rimandarle o di svuotarle di significato”.

Fare delle elezioni, se prese sul serio, significa ascoltare la volontà della popolazione. L’interrogativo chiave per un esercito invasore è: “La gente vuole che rimaniamo qui?”. Le informazioni per formulare una possibile risposta non mancano. Una fonte importante è il sondaggio del ministero della difesa britannico condotto ad agosto da ricercatori universitari iracheni e filtrato sulla stampa inglese.

L’82 per cento degli intervistati si è detto “fortemente contrario” alla presenza delle truppe della coalizione, e meno dell’1 per cento ritiene che abbiano apportato dei miglioramenti alla situazione della sicurezza. Analisti della Brookings institution di Washington riferiscono che a novembre l’80 per cento degli iracheni auspicava un “ritiro a breve termine delle truppe statunitensi”. Dunque le forze della coalizione dovrebbero andarsene, come vuole la popolazione, e non cercare di insediare un regime vassallo.

Ma Bush e Blair si rifiutano ancora di stabilire una tabella di marcia per il richiamo delle truppe, limitandosi a ritiri simbolici man mano che raggiungono i loro obiettivi.

C’è un buon motivo per cui gli Stati Uniti non possono tollerare un Iraq sovrano, più o meno democratico. La questione non può essere sollevata perché contraddice la dottrina ufficiale, che ci vuol far credere che gli Stati Uniti avrebbero invaso l’Iraq anche se fosse stata un’isola dell’oceano Indiano e se il suo principale prodotto di esportazione fossero stati i sottaceti, non il petrolio. Come è chiaro a chiunque non sia fazioso, controllare l’Iraq rafforzerà la presa statunitense sulle risorse energetiche globali, una leva cruciale per dominare il mondo.

Supponiamo che l’Iraq diventi sovrano e democratico. Immaginiamo la politica che probabilmente farebbe. La popolazione sciita del sud del paese, dove si trova la maggior parte del petrolio iracheno, avrebbe un’influenza preponderante e vorrebbe avere rapporti di amicizia con l’Iran sciita. Le relazioni sono già strette. La brigata Badr, la milizia che controlla quasi tutto il sud, è stata addestrata in Iran. Anche gli alti esponenti del clero hanno rapporti di vecchia data con Teheran, compreso Al Sistani, che vi è cresciuto. E il governo provvisorio a maggioranza sciita ha già cominciato a stringere contatti con gli iraniani.

Inoltre, anche in Arabia Saudita c’è una numerosa popolazione sciita, duramente oppressa. Qualsiasi passo avanti verso l’indipendenza dell’Iraq potrebbe accrescere anche qui il desiderio di autonomia e giustizia. Ma si dà il caso che questa sia pure la regione saudita più ricca di petrolio. Il risultato, allora, potrebbe essere una tacita alleanza tra Iraq, Iran e le maggiori zone petrolifere dell’Arabia Saudita, indipendente da Washington e con il controllo di gran parte delle riserve mondiali di greggio.

Questo blocco indipendente potrebbe seguire l’esempio dell’Iran e sviluppare importanti progetti energetici insieme a Cina e India. Ma se Teheran può cedere alle pressioni dell’Europa occidentale, pensando che gli europei non siano disposti ad agire in modo indipendente da Washington, Pechino non può essere intimidita. Ecco perché gli Stati Uniti ne hanno così paura. La Cina sta già stringendo rapporti con l’Iran e con l’Arabia Saudita, a livello sia militare sia economico. Esiste una rete di sicurezza energetica asiatica, basata su Pechino e Mosca ma destinata a coinvolgere anche India, Corea e altri paesi. Se l’Iran si muovesse in questa direzione, potrebbe diventare il fulcro di questo sistema di potere.

Sviluppi simili, compresa la possibilità di un Iraq sovrano e magari anche le principali risorse energetiche saudite in mano sciita, sarebbero un vero incubo per Washington.

Come reagiranno gli occidentali? Staranno a fianco delle forze di occupazione che cercano di impedire la democrazia e la sovranità o saranno a fianco del popolo iracheno?

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