13 aprile 2006 00:00

Come si sa, sono tanti i temi per cui battersi quando si hanno a cuore i diritti umani. Ma ce ne sono alcuni che appaiono fondamentali, perché influiscono direttamente sulla possibilità di vivere dignitosamente. Tra questi, eccone tre: le guerre nucleari, i disastri ambientali e il fatto che queste catastrofi sono rese più probabili dai comportamenti del governo della prima potenza del mondo.

Sottolineo – è importante – la parola “governo”: infatti la popolazione non è d’accordo, e non c’è da stupirsi. Questo aspetto richiama un quarto tema che dovrebbe preoccupare molto: la netta divisione tra quel che pensa l’opinione pubblica e la politica dei governanti del paese.

Il sistema statunitense comincia ad assumere alcune delle caratteristiche dei cosiddetti failed states, gli “stati falliti”, tanto per adottare un termine oggi in voga che si applica agli stati considerati potenzialmente minacciosi per la nostra sicurezza (vedi l’Iraq), oppure bisognosi del nostro intervento per salvare la loro popolazione da gravi minacce interne (vedi Haiti).

Non esiste un metodo scientifico per definire gli “stati falliti”, ma tutti hanno in comune alcune caratteristiche. Non possono o non vogliono proteggere i loro cittadini dalla violenza. Si considerano fuori dal raggio di applicazione delle leggi nazionali e del diritto internazionale, e quindi liberi di aggredire e di usare la violenza. Inoltre, nei casi in cui abbiano una forma democratica, soffrono di un grave “deficit di democrazia”, che priva di sostanza le loro istituzioni formalmente libere.

Per chiunque, uno dei compiti più difficili, ma anche più importanti, è sapersi guardare allo specchio. Se noi americani lo facessimo, non avremmo troppe difficoltà a ritrovare le caratteristiche degli “stati falliti” proprio qui a casa nostra.

La storia fornisce molti esempi del disprezzo di Washington verso il diritto e le norme internazionali. Questo disprezzo sta oggi raggiungendo nuove vette.

Ci vuole molta miopia per non riconoscere la verità in ciò che scrisse lo storico Arno Mayer dopo l’11 settembre, e cioè che l’America è “la prima a macchiarsi di terrorismo ‘preventivo’ di stato e di molte altre azioni da ‘canaglia’”, azioni che hanno provocato danni immensi, “sempre nel nome della democrazia, della libertà e della giustizia”.

Da quando Bush è andato al potere, anche studiosi non radicali hanno cominciato ad affermare una verità di fatto: gli Stati Uniti “hanno molte delle caratteristiche proprie di quelle ‘nazioni canaglia’ contro cui avevano mosso guerra” (David C. Hendrickson e Robert W. Tucker in Foreign Affairs 2004).

Gli Stati Uniti sono come tutte le altre potenze: perseguono gli interessi strategici ed economici dei settori dominanti della popolazione, nascondendoli con infiorettature retoriche che esaltano la loro dedizione ai valori supremi. Si sente dire spesso che ci sono alcuni critici cavillosi, che protestano perché le cose vanno male, senza proporre soluzioni.

Ecco allora qualche semplice suggerimento per gli Stati Uniti: 1) accettare la giurisdizione della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia; 2) sottoscrivere e applicare i protocolli di Kyoto; 3) lasciare che sia l’Onu ad assumere la gestione delle crisi internazionali; 4) puntare su misure diplomatiche ed economiche, anziché militari, per fronteggiare la minaccia del terrorismo; 5) attenersi all’interpretazione tradizionale della Carta dell’Onu, in cui si legge che è legittimo usare la forza solo se lo ordina il Consiglio di sicurezza, o quando il paese è minacciato da un’aggressione imminente; 6) rinunciare al diritto di veto nel Consiglio di sicurezza e osservare “un dignitoso rispetto per l’opinione del genere umano”, come prescrive la Dichiarazione d’indipendenza; 7) attuare una forte riduzione delle spese militari e un forte aumento di quelle sociali, cioè investire in sanità, istruzione, energie rinnovabili eccetera.

Sono suggerimenti molto prudenti per chi crede nella democrazia. E a quanto pare corrispondono all’opinione della maggioranza dei cittadini americani: in qualche caso, della stragrande maggioranza. Ma sono diametralmente opposti alla politica ufficiale degli Stati Uniti, e nella maggior parte dei casi, alle posizioni su cui concordano i due principali partiti.

Le occasioni per organizzarsi abbondano. Come in passato, è poco probabile che i diritti siano accordati da autorità benevole o conquistati agendo a intermittenza: per esempio partecipando a qualche manifestazione, o votando in quelle farse quadriennali chiamate “vita politica democratica”. Com’è sempre successo in passato, occorre un impegno costante e quotidiano, per creare – anzi, in parte, ricreare – le basi di una cultura democratica funzionante.

Ci sono molti modi per promuovere la democrazia nel nostro paese e per condurla a nuovi traguardi. Le opportunità sono tante e se non sapremo coglierle, rischiamo di avere conseguenze molto gravi: per il paese, per il mondo e per le future generazioni.

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