08 febbraio 2007 00:00

In occidente alcune delle informazioni più importanti sull’Iraq sono ignorate. Finché non se ne terrà conto, nessuna proposta sulla politica degli Stati Uniti nel paese potrà essere considerata valida. Una di queste notizie che di recente sono passate sotto silenzio era particolarmente illuminante: è stato condotto un sondaggio a Baghdad, Anbar e Najaf sull’invasione e sulle sue conseguenze.

“Circa il 90 per cento degli iracheni pensa che prima dell’invasione della coalizione guidata dagli Stati Uniti la situazione del paese fosse migliore di quanto non lo sia oggi”. I risultati del sondaggio, realizzato nel novembre del 2006 dall’Iraq center for research and strategic studies di Baghdad, sono stati riferiti dalla United press international.

“Quasi metà degli intervistati si è dichiarata favorevole a un immediato ritiro delle truppe”, ha scritto il Daily Star di Beirut. Un altro 20 per cento si è detto a favore di un ritiro graduale a partire da subito. Il problema è che, in genere, quello che pensa la gente – in Iraq, negli Stati Uniti o altrove – non è considerato importante da chi prende le decisioni, perché potrebbe impedirgli di fare le scelte che vuole.

Nonostante la retorica sull’amore per la democrazia e sulle missioni da intraprendere per promuoverla, questi signori tendono a essere molto poco democratici. I sondaggi condotti negli Stati Uniti dimostrano che la maggioranza della popolazione è contraria alla guerra, ma riscuotono ben poca attenzione e rimangono regolarmente fuori non solo dalla pianificazione politica ma anche dalle critiche a questa pianificazione (come il recente rapporto del Gruppo di studio Baker-Hamilton sull’Iraq).

Il vero motivo dell’invasione è che dopo l’Arabia Saudita l’Iraq possiede le più grandi riserve di petrolio del mondo, peraltro facilmente sfruttabili, ed è al centro della regione più ricca di idrocarburi del pianeta. Il problema non è l’accesso a quelle risorse ma il loro controllo (e il profitto per le grandi società petrolifere). Come ha osservato a maggio il vicepresidente Dick Cheney, il controllo delle risorse energetiche può costituire “uno strumento di intimidazione e di ricatto”. È bene, quindi, che non finisca nella mani di qualcun altro.

Ma i politici sono perfettamente consapevoli di quale sia la posta in gioco. Un Iraq sovrano e anche solo in parte democratico potrebbe essere una sciagura per loro e per i loro alleati. Con una maggioranza sciita, l’Iraq probabilmente rafforzerebbe i suoi legami con l’Iran. C’è anche una popolazione sciita dall’altra parte del confine con l’Arabia Saudita, che è oppressa dal regime appoggiato dagli Stati Uniti. Qualsiasi passo compiuto per restituire la sovranità all’Iraq favorirebbe un certo grado di autonomia proprio nella regione in cui si trova la maggior parte del petrolio saudita.

Un Iraq sovrano potrebbe portare alla nascita di un’alleanza sciita indipendente dagli Stati Uniti che controllerebbe la maggior parte delle riserve petrolifere del mondo, vanificando uno dei principali obiettivi della politica estera americana fin dalla seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti non stanno certo costruendo l’ambasciata più grande del mondo a Baghdad e spendendo un patrimonio per le basi militari per poi lasciare l’Iraq agli iracheni.

Il tema centrale del rapporto Baker-Hamilton è il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, o meglio, il loro ritiro dai combattimenti diretti. Alcuni osservatori temono che, con il ritiro degli Stati Uniti, in Iraq si scateni una vera e propria guerra civile e che la situazione del paese peggiori ulteriormente. Per quanto riguarda le conseguenze di un eventuale ritiro, ognuno è libero di pensare quello che vuole.

Non ha molta importanza. Quello che conta, o meglio che dovrebbe contare, è ciò che pensano gli iracheni. Se i risultati dei sondaggi sono considerati insufficienti, si potrebbe sottoporre la questione del ritiro a referendum. Il voto andrebbe condotto sotto la supervisione della comunità internazionale per limitare le intimidazioni da parte delle forze occupanti e dei loro amici iracheni.

Ora, contrariamente a quanto suggerisce il rapporto Baker-Hamilton (e a quanto pensa l’opinione pubblica irachena e americana), il piano di Washington è quello di “intensificare l’attacco” inviando altre truppe in Iraq. Ben pochi analisti militari ed esperti di Medio Oriente pensano che una tattica del genere possa funzionare. Ma non dovrebbero sottovalutare la forza di quello che è il principale obiettivo della politica estera statunitense: mantenere il controllo delle risorse di quella regione.

Una vera sovranità irachena non è accettabile agli occhi degli occupanti. E né loro né gli stati confinanti potrebbero sopportare un ulteriore deterioramento della situazione nel paese o un eventuale conflitto regionale.

Il compito più urgente degli americani, quindi, è provare a cambiare la loro società e la loro cultura. Bisogna fare in modo che i motivi per cui questa guerra è cominciata e viene portata avanti, e le decisioni che sarebbe necessario prendere in questo momento, diventino almeno argomento di una discussione seria a livello nazionale.

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