07 febbraio 2008 00:00

L’esercito di occupazione statunitense in Iraq (chiamato eufemisticamente Forza multinazionale) fa regolarmente dei sondaggi tra gli iracheni. Il rapporto pubblicato nel dicembre 2007, che presenta i risultati di un’indagine condotta su alcuni gruppi campione, è stato insolitamente ottimista.

Secondo il rapporto, il sondaggio “ha smentito” l’idea che “la riconciliazione nazionale è impossibile e nessuno ci conta”. È emerso, invece, che “tutti i gruppi campione erano moderatamente ottimisti” e che “tra gruppi diversi di iracheni c’erano molti più punti in comune che differenze”.

La scoperta delle opinioni comuni tra gli iracheni che vivono in zone diverse del paese “è una buona notizia, secondo l’analisi dei risultati fatta dai militari”, scrive Karen DeYoung sul Washington Post. Il rapporto individua anche quali sono queste opinioni comuni.

Per citare DeYoung: “Gli iracheni di tutti i gruppi etnici e religiosi pensano che l’invasione militare americana sia la fonte principale dei loro violenti contrasti, e considerano il ritiro delle ‘forze di occupazione’ l’unico modo per ritrovare l’unità nazionale”.

Il rapporto dimentica di citare un’altra buona notizia: sembra che gli iracheni condividano i più alti valori americani, stabiliti dal tribunale di Norimberga, e in particolare il principio secondo cui l’aggressione (“l’invasione del territorio di uno stato da parte delle forze armate di un altro”) sarebbe il “crimine internazionale supremo”, che “differisce dagli altri crimini di guerra soltanto perché contiene in sé il male di tutti gli altri”.

Gli Stati Uniti invece, e con loro tutto l’occidente, hanno ripudiato gli alti princìpi stabiliti a Norimberga: un’interessante indicazione della vera essenza del famoso scontro di civiltà. Un’altra buona notizia è stata data dal generale David Petraeus, comandante delle forze statunitensi in Iraq, e dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker, durante lo straordinario spettacolo messo in scena l’11 settembre 2007.

Forse siamo cinici a pensare che, scegliendo quella data, si volessero rievocare le accuse lanciate da Bush sui legami di Saddam Hussein con Osama bin Laden e che, quindi, fosse un modo per ribadire che “il crimine internazionale supremo” è stato commesso per difendere il mondo dal terrorismo.

Petraeus e Crocker hanno fornito delle cifre per dimostrare che il governo iracheno sta rapidamente accelerando la ricostruzione e ha già speso un quarto dei finanziamenti stanziati. Davvero una buon notizia. Peccato che poi sia stata smentita dalla ragioneria generale degli Stati Uniti: la cifra spesa realmente è un sesto di quella sbandierata da Petraeus e Crocker, e la metà di quella dell’anno precedente.

Un’altra buona notizia è la diminuzione della violenza settaria, dovuta in parte al successo della sanguinosa pulizia etnica che, secondo gli iracheni, è stata provocata dall’invasione: indubbiamente adesso ci sono meno obiettivi per la violenza settaria.

Ma il fatto che sia diminuita dipende anche dal sostegno dato da Washington ai gruppi tribali impegnati a stanare i membri di Al Qaeda in Iraq, e dall’aumento delle truppe statunitensi nel paese. È possibile che la strategia di Petraeus funzioni come quella dei russi in Cecenia, dove oggi, secondo il New York Times, gli scontri sono “limitati e sporadici e Grozny è in piena ricostruzione” dopo essere stata ridotta in macerie dai russi.

È possibile, ma non molto probabile, perché la nascita di tanti eserciti dei signori della guerra potrebbe portare a una violenza settaria ancora maggiore, che si aggiungerà al crimine supremo dell’aggressione.

Gli iracheni non sono i soli a credere alla riconciliazione nazionale. Una società di sondaggi canadese ha scoperto che gli afgani hanno fiducia nel futuro e sono favorevoli alla presenza dei soldati stranieri nel loro paese. Naturalmente la buona notizia è finita subito su tutti i giornali.

Entrando nel dettaglio, si scopre però che solo il 20 per cento “pensa che appena le truppe straniere se ne andranno torneranno al potere i taliban”. Tre quarti sono favorevoli a un negoziato tra il governo filostatunitense di Karzai e i taliban, e più della metà è favorevole a un governo di coalizione.

Possiamo quindi ragionevolmente supporre che la popolazione sia favorevole alla presenza straniera per via degli aiuti umanitari e del sostegno alla ricostruzione.

Naturalmente, si potrebbero sollevare molti dubbi sulla validità dei sondaggi condotti in un paese sotto occupazione militare. Ma i risultati degli studi condotti in Iraq e in Afghanistan confermano quelli precedenti, e non dovrebbero essere ignorati.

Dopo questa valanga di buone notizie da tutta la regione, i candidati alla presidenza statunitense, i funzionari del governo e i commentatori stanno cominciando a discutere più seriamente sulle possibili scelte degli Stati Uniti in Iraq. Ma manca sempre una voce: quella degli iracheni. Le loro opinioni comuni sono note, come lo erano in passato.

A loro però non è permesso decidere quello che vogliono fare più di quanto non sia concesso a un bambino. Solo i conquistatori hanno questo diritto. Forse anche questo dovrebbe insegnarci qualcosa sullo scontro di civiltà.

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