05 febbraio 2009 00:00

Barack Obama è considerato molto intelligente, una persona che sceglie le parole con cura. Sia le cose che dice sia i suoi silenzi meritano di essere presi sul serio. Il 22 gennaio, al dipartimento di stato, ha fatto la sua prima dichiarazione importante sulla politica estera.

Quel giorno George Mitchell è stato nominato inviato speciale per il processo di pace in Medio Oriente. Mitchell dovrebbe concentrarsi sul problema israelo-palestinese, e Obama ha ribadito il suo impegno per un accordo di pace. “La mia amministrazione cercherà attivamente di favorire una pace duratura tra gli israeliani e i palestinesi, e tra Israele e i suoi vicini arabi”.

Poi, però, non ha precisato i contorni della sua politica, tranne su un punto: “L’iniziativa di pace araba”, ha detto, “contiene elementi costruttivi che potrebbero contribuire a portare avanti il processo di pace. Ora gli stati arabi devono mantenere la loro promessa appoggiando il governo palestinese del presidente Abu Mazen e del primo ministro Salam Fayyad, prendendo iniziative per normalizzare i rapporti con Israele e contrastando l’estremismo che ci minaccia tutti”.

Obama non respinge la proposta della Lega Araba, ma ne dà un’interpretazione rivelatrice. È vero, la proposta araba prevede la normalizzazione dei rapporti con Israele, ma solo nel contesto della creazione di due stati: soluzione condivisa da tutta la comunità internazionale, e che solo Israele e Stati Uniti bloccano da oltre trent’anni.

Il fatto che Obama abbia omesso questa premessa fondamentale – la coesistenza di Israele e Palestina all’interno di confini internazionalmente riconosciuti – non può essere casuale. Dimostra che il nuovo presidente non vuole allontanarsi dalla linea americana del rifiuto.

Il suo invito agli stati arabi a mettere in atto il loro piano, mentre gli Stati Uniti continuano a ignorare il presupposto inderogabile per realizzarlo, è di un cinismo incredibile. Il processo di pace è bloccato dalle azioni criminali degli israeliani, appoggiati da Washington, nei Territori occupati: l’appropriazione di terre e risorse e la costruzione di quelli che l’architetto del piano, Ariel Sharon, chiamava “bantustan” per i palestinesi.

Quando ha parlato della “costruttiva” proposta araba, Obama non ha accennato agli insediamenti in Cisgiordania né alle misure adottate per controllare la vita dei palestinesi, che rendono difficile qualsiasi accordo pacifico sui due stati. Il suo silenzio contraddice gli svolazzi retorici sull’impegno a “sostenere attivamente la creazione di due stati che possano vivere uno a fianco all’altro in pace e sicurezza”.

Obama continua ad appoggiare Abbas e Fayyad, che rappresentano i partiti sconfitti nel gennaio del 2006, in una delle elezioni più libere del mondo arabo. E cita i soliti motivi per ignorare il governo guidato da Hamas.

“Per partecipare al processo di pace”, ha dichiarato, “il quartetto (Stati Uniti, Unione europea, Russia e Onu) ha imposto ad Hamas tre condizioni precise: deve riconoscere il diritto all’esistenza di Israele; rinunciare alla violenza; rispettare gli accordi del passato”.

Non accenna, come al solito, a uno scomodo dettaglio: Stati Uniti e Israele sono gli unici a opporsi alla soluzione dei due stati e, naturalmente, loro non intendono rinunciare alla violenza. Hamas invece è favorevole alla soluzione dei due stati, e lo ha dichiarato più di una volta.

Obama ha detto: “Voglio essere chiaro: l’America è impegnata a garantire la sicurezza di Israele. E sosterrà sempre il suo diritto a difendersi contro qualsiasi minaccia”. Non ha detto nulla, però, sul diritto dei palestinesi a difendersi da attacchi ancora più gravi, come quelli che subisce ogni giorno a Gaza e in Cisgiordania con la connivenza degli Stati Uniti.

Ma questa, ancora una volta, è la norma. L’ipocrisia è particolarmente evidente in questo caso, perché la dichiarazione è stata fatta in occasione della nomina di Mitchell. Il suo principale successo diplomatico è stato l’accordo di pace in Irlanda del Nord, che prevedeva la fine degli attacchi terroristici dell’Ira e delle violenze inglesi.

L’accordo, quindi, ammetteva implicitamente che la Gran Bretagna aveva il diritto di difendersi dal terrorismo, ma non di farlo con la forza, perché esisteva un’alternativa pacifica: il riconoscimento delle rivendicazioni dei cattolici nordirlandesi, che erano alla base del terrorismo dell’Ira.

Quando la Gran Bretagna ha scelto questa strada più ragionevole, il terrorismo è finito. È probabile che Mitchell sia favorevole a una proposta seria sui due stati. Nel 2001, durante l’amministrazione Bush, ha presieduto una commissione internazionale che nel suo rapporto finale negava a Israele il diritto di costruire altri insediamenti in Cisgiordania. Anche se è stato ufficialmente elogiato dagli Stati Uniti e da Israele, il rapporto Mitchell non ha avuto nessun effetto.

Per la futura missione di Mitchell in Israele e Palestina, le implicazioni della dichiarazione di Obama sono ovvie: non è previsto un accordo per creare due stati. Il primo compito di Mitchell sarà ascoltare tutti tranne, probabilmente, il governo di Hamas. Le omissioni di Obama confermano che la sua amministrazione vuole seguire la solita linea, opponendosi a qualsiasi accordo di pace che non la rispetti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it