07 maggio 2018 13:26

Tra le esperienze più da brivido della vita moderna ce n’è una che mi capita regolarmente, ma sicuramente non solo a me. Bevo qualcosa con un amico e quello mi consiglia un libro o un film che secondo lui mi piacerà e poi, senza che io lo abbia mai cercato, comincio a vederne la pubblicità online.

Non c’è da meravigliarsi se gira la voce che Facebook usi il microfono del nostro cellulare per spiarci. È quasi sicuramente falsa: le applicazioni e i siti web raccolgono già tanti dei nostri dati che non hanno bisogno di trucchi simili, abbiamo solo la sensazione che ci stiano spiando.

Ma c’è un altro motivo per cui la rete ci conosce meglio di quanto pensiamo: è che siamo molto più normali di quanto ci rendiamo conto di essere. Sapendo qualcosa su di me, sia Facebook sia il mio amico finiscono per consigliarmi le stesse cose perché la mia costellazione di interessi è molto meno speciale, e quindi più prevedibile, di quanto mi piacerebbe credere.

Superiorità illusoria
“Non sei poi così speciale” può essere un insulto (una specie di povero illuso, che si crede chissà chi) e a volte un’espressione d’affetto, come il messaggio che diventò virale nel 2012 in cui l’insegnante americano di scuola superiore David McCullogh invitava i suoi studenti a non rendersi infelici cercando di dimostrare che erano al centro dell’universo. Spesso è anche un’accusa lanciata dai vecchi ai giovani.

Ma questa non è altro che una distrazione dal brutale fatto statistico che, in base a qualsiasi parametro, e a parità di condizioni, è ovvio che siamo nella norma. Privata di qualsiasi valore di giudizio, è questo che significa la parola “normale”.

Ci sono buone probabilità che la nostra intelligenza, la nostra creatività, i nostri gusti culturali o amorosi, il modo in cui il mondo ci ha maltrattato siano meno strani o estremi di quanto pensiamo, soprattutto dato che ognuno di noi ha forti motivi per credere il contrario.

Pensare di essere meno normali di quanto siamo realmente ci rende infelici

O per dirla in altre parole: pensare di essere speciali è solo uno dei tanti modi di essere normali. È il famoso fenomeno noto come “superiorità illusoria”, che spiega perché la maggior parte delle persone ritiene di essere al di sopra della media per come guida, per mancanza di pregiudizi e per vari altri motivi. E funziona anche al contrario: la sindrome dell’impostore è proprio quella di chi pensa di essere speciale, ma in senso negativo.

Il guaio è che pensare di essere meno normali, in positivo o in negativo, di quanto siamo realmente ci rende infelici, convincendoci che siamo insolitamente cattivi o costringendoci a isolarci e a stare sempre sulla difensiva perché riteniamo di essere troppo buoni.

Quest’ultimo atteggiamento significa anche che qualsiasi aspetto della vita o dell’esperienza assolutamente normale – cioè per definizione quasi tutti – ci sembra un affronto alla nostra identità. “Non dimenticate mai che ogni mente è plasmata dalle esperienze più comuni”, scriveva il poeta francese Paul Valéry. “Dire che qualcosa è normale significa dire che è tra le cose che hanno dato il maggior contributo alla formazione delle nostre idee più elementari”.

Disdegnare il normale significa disdegnare quasi tutto quello che succede. Anche fare questo ovviamente è piuttosto normale, ma è la ricetta sicura per una vita infelice.

Consiglio di lettura
Nothing special, della maestra zen americana Charlotte Joko Beck, è un’esplorazione degli aspetti eccezionali della quotidianità che ci costringe a cambiare prospettiva.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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