10 luglio 2018 12:04

Secondo un recente sondaggio, più di un terzo dei newyorchesi vorrebbe lasciare la città. Ma, come fa notare su Twitter la giornalista e imprenditrice Elizabeth Spiers, voler lasciare New York – ed esprimere questo desiderio online, nei bar o sulla metropolitana – fa parte dell’identità di molti newyorchesi (sui mezzi d’informazione locali, articoli intitolati “Perché lascio New New York” sono un classico e potete scommetterci che li leggono solo newyorchesi scontenti, perché a chi altro potrebbero interessare?).

Essendo un inglese che vive nella Grande Mela, penso spesso anch’io di andarmene. Ma non posso fare a meno di notare quanti londinesi provano lo stesso piacere a criticare Londra e un saggio pubblicato dalla Paris Review qualche tempo fa ci ha ricordato che le più grandi menti della Vienna dell’ottocento odiavano Vienna. Forse questo dimostra solo che vivere in città ci rende infelici, ma io ho un’altra teoria: le persone che si ammassano volontariamente nelle grandi città sono proprio quelle che tendono a lamentarsi del posto in cui vivono. E non sono neanche convinto che per questo siano meno felici.

Un sentimento universale
Ovviamente, esistono molti motivi perfettamente razionali per non sopportare di vivere in una città: il continuo aumento dei prezzi delle case, l’inefficienza dei trasporti pubblici, il sovraffollamento, e così via. Ma se siete abbastanza privilegiati da poter scegliere dove vivere, essere un po’ infastiditi dal posto che avete scelto mi è sempre sembrato l’atteggiamento più dignitoso.

Quando condividiamo con gli altri residenti l’irritazione per tutto quello che non funziona – senza però andarcene veramente – non facciamo che confermare la natura dell’insoddisfazione umana: è un sentimento universale, che non è possibile eliminare strappando le proprie radici e andando altrove (il motto buddista “la vita è sofferenza” potrebbe essere meglio reso come “la vita è insoddisfazione”, il che significa che possiamo anche evitare di incorrere in grandi sofferenze per anni, ma non possiamo sfuggire a tutta una serie di seccature). Quindi non posso fare a meno di sospettare di chi sostiene di essere del tutto soddisfatto di dove vive. Ci ha pensato bene?

E poi, vivere in leggero contrasto con quello che ci circonda è più stimolante. Lo scrittore Ron Rosenbaum una volta ha raccontato che lavora con la televisione accesa per avere qualcosa “contro cui concentrarsi”, e una moderata irritazione nei confronti del luogo in cui si risiede funziona allo stesso modo, ci tiene sempre sulla corda, oltre a essere semplicemente realistico.

Anche se ci spostiamo, ci saranno sempre innumerevoli luoghi che ci sembrano irraggiungibili

Nel suo nuovo libro The happiness dictionary, un compendio di parole legate alle emozioni che non esistono in inglese, Tim Lomas cita la parola tedesca Fernweh, “desiderio di luoghi lontani”. Non è la stessa cosa della nostalgia, perché lo possiamo provare anche per posti dove non abbiamo mai vissuto, che non abbiamo mai visto, o perfino che non esistono, e coglie bene la leggera malinconia che ci provoca il fatto di poter vivere solo in un posto alla volta: anche se ci spostiamo, ci saranno sempre innumerevoli luoghi che ci sembrano irraggiungibili.

Per chi ha la fortuna di poter scegliere – dove vivere o qualsiasi altra cosa – la vera sfida potrebbe essere non scegliere il posto migliore, ma imparare ad accettare il fatto che, se anche lo facesse, continuerebbe comunque a provare quel desiderio di luoghi lontani.

Consigli di lettura
Tra le parole utili e “intraducibili” in inglese citate da Tim Lomas nel suo The happiness dictionary, ci sono per esempio l’olandese pretoogjes “occhi scintillanti di benigno divertimento” e l’italiano magari.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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