04 settembre 2018 13:22

Una delle piccole seccature di questi tempi così politicamente vertiginosi sono i rimproveri che spesso leggiamo su Twitter, soprattutto da parte degli statunitensi ansiosi di sbandierare il loro attivismo. “Se vi state chiedendo che cosa avreste fatto nella Germania degli anni trenta, o durante il movimento per i diritti civili”, dicono, “congratulazioni, lo state facendo adesso”.

La cosa che mi lascia perplesso non è tanto la correttezza dell’analogia. E sono solo leggermente seccato dal fatto che i loro commenti sono offensivi, perché “quello che stanno facendo adesso”, chiaramente, non è altro che scrivere tweet ipocriti. Come tutti quelli che predicano sui social network, presumo che lo facciano per mettersi a posto la coscienza: scrivendo quei tweet hanno la sensazione di aver fatto la loro parte.

Quello che mi disturba veramente è che sono quasi sicuro che con questo tipo di esortazioni è ancora meno probabile che le persone decidano di fare qualcosa di costruttivo. Sono il tipo di messaggi che ti fanno pensare che l’unico modo per reagire a una crisi (Trump, il cambiamento climatico… scegliete voi) sia lasciare il lavoro e dedicare la vita e i risparmi alla causa. O almeno dedicarle tutto il nostro tempo libero. Improvvisamente, qualsiasi cosa possiamo veramente fare (una piccola donazione, partecipare a una manifestazione di protesta, firmare una petizione) diventa ai nostri occhi patetico e inutile. Così, davanti a una situazione grave, finiamo per fare ancora meno di quanto faremmo se non fossimo convinti che è grave.

Un messaggio più utile, anche se meno melodrammatico, sarebbe “scegliete il modo più appropriato di agire”. In altre parole, paragonate quello che fate a quello che avreste potuto fare, e non a un mondo ideale in cui sareste diventati il Mahatma Gandhi. Se la scelta è tra una piccola azione e il nulla, quella piccola azione non è patetica (siate sinceri con voi stessi, però: se potete sul serio lasciare il lavoro, forse dovreste farlo).

Naturalmente, questa logica non si applica solo all’azione politica. Uno dei motivi più comuni per rimandare qualsiasi grande progetto è la sensazione che dedicargli solo qualche minuto al giorno, o alla settimana, “non sarebbe abbastanza”. Ma se l’unica alternativa possibile è lavorarci per zero minuti al giorno, questa obiezione non ha senso: state usando un concetto di “abbastanza” che vi porta a non fare mai nulla.

Si potrebbe tracciare un parallelo con la “teoria del confronto sociale”, secondo cui siamo infelici perché ci confrontiamo “verso l’alto”, cioè con chi è più ricco o ha avuto più successo di noi (è per questo che volare in prima classe sulla Cathay Pacific è così seccante: una volta raggiunto quel livello di lusso ci resta da invidiare solo chi ha un jet privato).

Ma possiamo cadere nella stessa trappola anche senza coinvolgere gli altri. Contrapponiamo le nostre azioni a quelle di una versione perfetta di noi stessi, un confronto verso l’alto particolarmente sconfortante, visto che non c’è limite a quello che possiamo immaginare di fare, e quindi nessuna azione reale potrà mai essere all’altezza della fantasia. Provate piuttosto a confrontarvi “verso il basso”. Non chiedetevi che cosa avreste, idealmente, fatto nella Germania degli anni trenta, chiedetevi cosa potreste fare oggi, se il problema non fosse stato sollevato. E poi cercate di fare almeno un po’ di più.

Da ascoltare
In una puntata della trasmissione radiofonica On being, di Krista Tippett, la storica Lyndsey Stonebridge discute le riflessioni di Hannah Arendt su cosa significa pensare solo a se stessi nei tempi bui.

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo Don’t dwell on what you might have done in 1930s Germany. Traduzione di Bruna Tortorella.

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