11 febbraio 2020 13:02

Già da qualche tempo sto cercando di trovare le parole per definire una condizione nella quale mi trovo spesso e della quale vedo i segni anche in altre persone. Non si tratta di “essere distratti” ma neanche di “non essere distratti”. Tendiamo a pensare alla distrazione come a una condizione assoluta: o siamo del tutto concentrati su qualcosa, oppure ancora una volta siamo distratti da Twitter o da Netflix.

Si tratta piuttosto di un calo dell’attenzione, che non ci impedisce di rimanere, almeno in teoria, concentrati su quello che stiamo facendo (l’etichetta che ci si avvicina di più è forse “attenzione parziale continua”, coniata dalla scrittrice Linda Stone).

Uno dei sintomi chiave è quello che posso descrivere come un’impazienza nei confronti dei propri processi cognitivi, un’incapacità a seguire i propri pensieri fino alla fine. E sto cominciando a chiedermi se questa non sia la causa di varie situazioni difficili in cui ci troviamo.

Senza riflessione
Il mio sospetto è stato confermato da un nuovo studio, che ho scoperto tramite il sito Research Rigest, sul perché le persone condividono le false notizie online. Secondo le due teorie più accreditate, o quelli che lo fanno non sono particolarmente svegli (credono veramente che quelle notizie siano vere) oppure sono dei cinici cretini impegnati a diffamare l’opposizione (e non gli importa se le storie non sono vere).

Ma lo psicologo canadese Gordon Pennycook e i suoi colleghi hanno dimostrato che la maggior parte delle persone che tendono a condividere notizie false sono convinte dell’importanza di diffondere solo quelle vere, e sono in grado di capire quali sono del tutto inventate. È solo che si lasciano trascinare – tra le altre cose dalla frenesia di condividere quello che stanno leggendo – prima di aver avuto il tempo necessario per riflettere sulla loro veridicità.

“È difficile immaginare”, scrivono i ricercatori, “che un gran numero di persone abbia veramente creduto, per esempio, che Hillary Clinton gestisse la vendita di bambini a scopo sessuale usando come base una pizzeria”, e dallo studio è risultato che probabilmente non ci credevano.

Quante probabilità ci sono veramente che Bernie Sanders sia un suprematista bianco?

Quando gli è stato chiesto di riflettere sulla veridicità di un titolo fasullo di giornale, era molto meno probabile che i partecipanti lo condividessero. Bastava quel semplice intervento per farli soffermare sui loro stessi processi mentali abbastanza a lungo per capire che la notizia era sospetta.

Mi chiedo se questo non spieghi in parte la deprimente tendenza dei protagonisti del dibattito politico attuale a pensare che i loro avversari agiscano in malafede, e che invece di credere a quello che sostengono di credere, sotto sotto siano semplicemente malvagi. Dopotutto, quante probabilità ci sono veramente che il politico conservatore medio “odi i poveri”, in senso letterale e cosciente? O che le persone che non sono d’accordo con noi su come curare la disforia di genere infantile segretamente gioiscano nel veder soffrire i bambini? O che Bernie Sanders sia, in qualsiasi accezione sensata del termine, un suprematista bianco? Basta riflettere qualche secondo per capire che sono tutte ipotesi improbabili. Eppure le ho lette tutte, più o meno spesso, online. E non sono di sicuro un buon punto di partenza per far cambiare idea a qualcuno.

Forse un giorno inventeranno un accessorio per lo smartphone che ci prende letteralmente per la collottola ogni volta che stiamo per ritwittare qualcosa e ci grida: “Andiamo! Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?”.

In attesa di questo, prima di cercare di convincere gli altri delle nostre idee, forse vale la pena soffermarsi un minuto a riflettere e decidere se ci crediamo veramente.

Consigli di lettura
In It hurts to be present, una puntata del podcast Hurry slowly, lo scrittore Rob Walker riflette su quanto ci risulti difficile rallentare i nostri ritmi.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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