20 dicembre 2014 15:07

Esce il terzo e ultimo episodio dello Hobbit. Ci sono voluti tredici anni, sei viaggi al cinema, più di 17 ore di visione, per non parlare dei dvd in extended version, ma adesso l’opera è compiuta. Parlo del singolo “film” in sei episodi sulla Terra di mezzo di Tolkien, voluto da Peter Jackson, che assomma la trilogia del Signore degli anelli e la trilogia gonfiata dello Hobbit perché – come dichiarò per giustificare il triplo adattamento di un libro di 300 pagine – nessun particolare della storia restasse “fuori dalla narrazione”.

Ma con la conclusione di questa impresa produttiva gigantesca, tra le maggiori della storia del cinema, è anche il momento di un chiarimento a lungo atteso: perché qualcosa invece è rimasto fuori, ed era qualcosa di proprio essenziale.

La prima cosa che bisogna riconoscere è l’impatto che questi film hanno avuto nel consolidare il mondo narrativo di Tolkien e il fantasy in generale in quello che in genere chiamiamo immaginario contemporaneo. E persino un lettore tolkieniano di vecchia data, come me, non può nascondere che i film abbiano lasciato una traccia indelebile.

Non si può insomma fare come Christopher Tolkien – il figlio che ha passato la vita a curare gli inediti del padre – che si gira dall’altra parte disgustato e grida alla violenza. Per molti i film di Peter Jackson sono la prima (e forse l’ultima) via di accesso a quel mondo.

Perciò, se la narrativa tolkieniana – come ha sostenuto il suo massimo studioso Tom Shippey – occupa nel novecento un ruolo paragonabile a quello dei Grimm nell’ottocento, è anche vero che gli adattamenti disneyani di Biancaneve e Alice sono altrettanto, se non più popolari dei rispettivi modelli letterari.

Detto questo, a maggior ragione, bisogna capire precisamente perché i film non colgono qualcosa di essenziale, e per questo occorre esaminarli con un po’ di attenzione.

Del resto, già quando uscì il primo film del Signore degli anelli, legioni di lettori e appassionati aspettavano al varco colui che aveva osato portare a termine il progetto già abbandonato dai Beatles (che nel 1969 proposero la regia a Kubrick!), da John Boorman, poi interrotto a metà da Ralph Bakshi nel suo adattamento di animazione del 1978 (qui il duello tra Gandalf e Saruman). Peter Jackson agì saggiamente: consultò filologi e nerd, veterani illustratori della Terra di mezzo e esponenti di società tolkieniane (senza farsi mancare la consulenza di un medievista come il già citato Shippey), insomma collettivizzò il processo di ricreazione. E il risultato piacque.

Non credo di essere il solo a ricordare con piacere il modo in cui, nella Compagnia dell’anello, i diversi capitoli vengono resi con diverse tonalità cromatiche, e gli scenari già più volte raffigurati da molti artisti prendono vita nella natura selvaggia della Nuova Zelanda.

Naturalmente i film privilegiavano le scene d’azione, questo si è chiarito sempre di più, e sono in molti a protestare per le vistose libertà e per le scene di azione disneyane dei film della nuova trilogia dello Hobbit, sottolineando – giustamente – quanto enormemente la seconda trilogia sia peggiore della prima. Ma la scelta dell’azione era per certi versi inevitabile. I libri di Tolkien, per esempio, sono pieni di poesie e canzoni, e quando Jackson ne ha inserita una, cantata dai nani nel primo episodio dello Hobbit, l’effetto è stato imbarazzante. Perciò, pazienza, pensai.

Del resto Peter Jackson non è Kubrick, ma è il regista dell’insostenibile film splatter-demenziale Bad Taste, in cui gli alieni tritano carne umana per servirla nei loro fast food (qui se volete c’è il film per intero). Ma è anche l’autore di un film divertente e intelligente come Forgotten Silver. Conoscendone la mano pesante, bisognava apprezzare la sua perizia e la sua leggerezza nel maneggiare Tolkien, e tenere per sé la consapevolezza che certo era solo un adattamento: per quanto possibile corretto e, visivamente, forse definitivo.

Ma la mia pazienza si è tramutata in delusione e sconcerto quando, nella trilogia dello Hobbit, Peter Jackson ha deciso di girare i film in un 3d a alta velocità – Hfr (High frame rate) – che consiste nella proiezione di 48 fotogrammi al secondo. Il risultato è che i nani e gli hobbit semplicemente condividono con noi lo stesso spazio: sono qui, che cantano e combattono, con le loro barbe posticce e i buffi cappelli, mentre noi sediamo irrigiditi in poltrona.

È per questo – non per il forzato allungamento di sceneggiatura, forse dettato da interessi commerciali – che Peter Jackson, con la trilogia dello Hobbit, dimostra finalmente di non aver capito nulla della bellezza dell’opera. Che stava proprio in un effetto di distanza irriducibile. Nella sensazione che qualcosa di essenziale delle vicende narrate ci sfugga, sia lontanissimo nel tempo e nello spazio, come una fonte irrecuperabile di nostalgia; mentre le scene con draghi e nani 3d-iperveloci sono completamente qui, ci vengono addosso, e questo è quanto. Ti piacciono i draghi? Eccoli.

Ma per capire meglio bisogna andare ancora indietro. Nel 1937 usciva Lo Hobbit, o andata e ritorno (There and back again). L’autore era un professore di anglosassone e letteratura inglese a Oxford. Si trattava di una storia di avventura, che aveva inizio e fine nella Contea degli hobbit, riparo di una quieta vita borghese che veniva sconvolta da vicende ancestrali di guerra e avidità.

Il viaggio circolare narrato da Tolkien, che poi lui stesso ripeté amplificato nella trilogia del Signore degli anelli (1954-55), si iscriveva in una geografia e cronologia immaginaria ben precisa: letteralmente compilata, mappata e illustrata dall’autore.

Alla pace domestica della Contea, simulacro di un bucolico Oxfordshire, corrispondeva a sud-est un mondo agitato da tensioni metafisiche e energie distruttive.

Bene, a cosa si riferiva il prof. Tolkien con questo universo fantastico? Il tentativo di decifrare i riferimenti si è fin da subito smarrito in un deserto di vaghezza, che Tolkien ha saputo creare con sapienza filologica. In realtà, il suo gesto creativo si distingueva proprio per questa arte di chiudere su se stesso il suo mondo immaginario, rielaborando nel suo racconto nomi, lingue e miti della tradizione germanica e anglosassone che egli conosceva bene come studioso.

Si trattava di un sottile gioco letterario, per cui i diversi personaggi rimandano a innumerevoli modelli arcaici, rimandano al Beowulf, all’Edda poetica, alla Canzone dei Nibelunghi – tutte opere che Tolkien ha tradotto o riscritto nel corso della sua carriera. E questo rimando è rivissuto dal lettore attraverso lo sguardo dei protagonisti, gli Hobbit. Anche loro infatti vengono a sapere per allusione di queste vicende antichissime, che solo in parte si chiariranno, e da cui dipendono i drammi del presente.

E noi di questi personaggi e vicende, alla fine, non sappiamo che i nomi, nomi continuamente evocati nella narrazione, e il fatto che essi appartenevano a un’epoca eroica. L’effetto - quasi postmoderno – è che si ha l’impressione che tutto quel che accade non sia che la ripetizione di un originale perduto e ormai illeggibile. Tanto tempo fa in un mondo remoto: di tutto questo noi lettori, spinti ancora più lontano, sappiamo attraverso una serie di manoscritti e annotazioni marginali fatte dagli stessi hobbit e da altri oscuri studiosi della Terra di mezzo.

In questo gioco letterario Tolkien non esprimeva soltanto la sua sensibilità di studioso abituato a leggere e tradurre testi medievali, che rimandano a un’epoca in cui paganesimo e cristianesimo erano ancora uniti in un legame inestricabile e per certi versi oscuro. Ma sceglieva convintamente, con un gusto da scrittore contemporaneo di Borges, di innalzare un filtro linguistico per produrre un effetto evocativo che ha affascinato da subito chi, di quelle fonti, non sapeva nulla.

Lo stesso Tolkien confessava di non sapere granché delle sue vere (vere?) fonti. Un giorno, raccontava, durante la correzione di alcuni elaborati dei suoi studenti, scrisse su un foglio bianco l’incipit: “In un buco nella terra viveva uno hobbit”, senza conoscere il significato di quella parola (solo in seguito lui stesso avrebbe ipotizzato che alcune fonti letterarie avrebbero potuto ispirarlo inconsciamente).

Di fatto oltre quel filtro si è letto di tutto. La Terra di mezzo? Una grande metafora! Il viaggio lisergico degli hippie, il viaggio iniziatico di una Destra evoliana, che provava a far riattecchire nei prati oxoniensi le radici della sua Tradizione mai esistita; e ancora i misteri di un cristiano militante, o le ossessioni di un reduce di guerra.

Ma al di là dell’inadeguatezza o del ridicolo di queste e altre letture, l’idea stessa di ritrovare una verità simbolica nascosta nella storia era un errore. La bellezza stava proprio nello scacco di tutte queste riduzioni ideologiche. E di questo scacco Tolkien aveva fatto una poetica, consapevolmente, scegliendo di sottrarre l’opera della fantasia dal giogo delle ideologie di ogni genere.

Nel suo libro di poetica Albero e foglia sosteneva, da cristiano, che la “creazione secondaria” della fantasia riflettesse quella del Creato: e ciò bastava a giustificarne l’esistenza. Ma allora, chiaramente, quella vaghezza doveva restare. Doveva rimanere la tensione di quel rimando a un passato indecifrabile, sepolto sotto uno strato di nomi, lingue, mappe e genealogie immaginarie. Doveva restare la domanda evocata dal gesto letterario di Tolkien, capace di produrre un effetto che io ho provato in prima persona: quello di suscitare un desiderio nostalgico già in un lettore di otto anni! Ma questa domanda sparisce, e con essa quel desiderio, se rimaniamo al nitore hd delle immagini di Peter Jackson.

Tolkien (non diversamente da Proust) rifletteva sulla potenza dei nomi; Jackson vuole giocare con i soldatini giganti.

Perciò, è stato tradimento. Una storia durata qualche anno, anche divertente. Abbiamo fatto carrellate vertiginose e acrobatiche zoomate verticali. C’erano Liv Tyler e Viggo Mortensen: bellissimi. Finalmente vedevamo l’anello Nenya e la spada Pungolo. C’erano panorami sconfinati, nei cui pixel potevamo leggere la possibilità di esplorare ancora, di raggiungere ogni dettaglio. Ma è finita. È ora di tornare a casa. Parlarne con i bambini. Spiegarsi. Aprire frettolosamente un libro e poi richiuderlo. Adesso è chiaro perché doveva finire. Non perché a me piace il Tolkien “proustiano” e a te quello “cristiano”; a lui quello “evoliano” e a qualcun altro il Tolkien “mammaguardacheeffettispeciali”.

È finita perché la storia originale, e solo quella, parlava di qualcosa da cui non ci possiamo veramente congedare, e che nessuna immagine può restituire: la nostra sterminata infanzia.

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