28 giugno 2023 09:56

La Russia è una fonte infinita di insegnamenti per la Cina. Nel 1991, dopo il crollo dell’Urss, il Partito comunista cinese aveva prodotto un film per ricavare alcune lezioni da quanto accaduto, proponendolo a tutti i quadri come una sorta di contro-modello. Trent’anni dopo, la Russia mostra ancora una volta gli errori che non bisogna commettere se si vuole creare una dittatura capace di durare nel tempo.

Il 24 giugno, mentre si svolgeva l’ammutinamento dei miliziani del gruppo Wagner, la Cina è rimasta in silenzio. Pechino ha atteso la fine della rivolta per minimizzare quello che ha definito come un semplice “incidente”. Il giorno successivo, un viceministro russo si trovava nella capitale cinese per rassicurare il paese più importante per Mosca in tempi di sanzioni economiche.

Il fatto che Vladimir Putin sia in difficoltà non è necessariamente una brutta notizia per Pechino. Il peso della Cina nel rapporto tra i due paesi, infatti, ne esce rafforzato. Tuttavia i cinesi temono che la Russia si indebolisca troppo, cosa che non farebbe piacere a Pechino nel contesto della sua guerra fredda con gli Stati Uniti. Questo rischio è ora assolutamente concreto.

Alleanza formale
La Cina e la Russia continuano a riavvicinarsi da almeno un decennio sulla base di un’ostilità comune nei confronti del dominio occidentale. È il fondamento ideologico dell’“amicizia senza limiti” tra Mosca e Pechino, per riprendere la formula usata in un comunicato congiunto poco prima dell’invasione dell’Ucraina.

Ma in realtà si tratta di un’alleanza unicamente formale, come accadeva ai tempi di Stalin. La sfiducia reciproca è sempre dietro l’angolo. Di recente un leader straniero che si trovava in Asia centrale ha riferito che i presidenti dei paesi ex sovietici ricevono regolarmente chiamate di Putin, il cui messaggio è chiaro: non gettatevi troppo rapidamente tra le braccia dei cinesi, perché noi vinceremo in Ucraina. Un segnale del nervosismo di Mosca davanti all’influenza sempre maggiore della Cina.

La visione di Xi Jinping di un partito centralizzato che gestisce tutto ne uscirà rafforzata

Dopo lo scoppio della guerra, la rivolta del gruppo Wagner si è aggiunta alla lista dei fastidi che la Cina prova nei confronti dei passi falsi della Russia. Pechino, per fare un altro esempio, ha pubblicamente condannato qualsiasi ipotesi di un ricatto nucleare.

Nell’ottobre dell’anno scorso, a Samarcanda, Putin era stato ripreso dalle telecamere mentre prometteva a Xi Jinping che avrebbe risposto alle sue “preoccupazioni” sull’Ucraina, che però non erano mai state espresse pubblicamente. Ad aprile Xi ha confidato a Emmanuel Macron, a Pechino, che non criticherebbe mai Putin in pubblico a causa dell’ostilità americana nei confronti della Cina, ma ha aggiunto una frase molto interessante a proposito dell’Ucraina: “Quella non è la mia guerra”. Lo spettacolo dei problemi della Russia ha sicuramente rafforzato la convinzione del leader cinese in merito alla necessità di mantenere le distanze da Mosca sulla guerra in Ucraina.

Paragonando l’autoritarismo cinese a quello russo emerge un contrasto: in Cina, all’interno del regime, c’è solo un capo, ed è Xi Jinping. A Pechino un Prigožin non troverebbe mai spazio, perché ricorda fin troppo i “signori della guerra” cinesi dell’inizio del ventesimo secolo. Troppo rischioso.

Di sicuro Xi trarrà almeno un insegnamento dagli eventi degli ultimi giorni: la sua visione di un partito centralizzato che gestisce tutto, a cominciare dall’esercito, ne uscirà rafforzata. Per Pechino, ormai, la Russia è decisamente un esempio di come non bisogna comportarsi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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