Quando un paese sparisce dal radar dell’attualità non significa necessariamente che tutto vada bene. La Siria ha occupato le prima pagine dei giornali per anni a causa della sanguinosa repressione della rivolta del 2011 e poi della guerra con il gruppo Stato islamico. Oggi non se ne parla quasi più, anche se la situazione resta drammatica.
Nelle ultime settimane, però, non sono mancate informazioni significative sulla situazione siriana. Nella città meridionale di Al Suwayda ci sono state diverse manifestazioni. Rivolte in un primo momento contro il rincaro del carburante, le proteste sono successivamente diventate più politiche e hanno coinvolto la città di Deraa (da dove era partita la rivolta del 2011) e altre località. Tra gli slogan c’erano quelli per chiedere la verità sulla sorte delle persone scomparse nell’ultimo decennio, un tema dolorosissimo per milioni di siriani.
Alcuni video testimoniano la presenza di folle consistenti e ricordano le scene della prima fase delle proteste del 2011, in piena “primavera araba”. Considerando la ferocia della repressione che seguì quel momento, è impressionante che la popolazione sia tornata in piazza per difendere i propri diritti e opporsi a un regime che, oggi come ieri, non esiterà a stroncare brutalmente ogni dissenso.
Nessuna normalizzazione
Che sia un caso o meno, il risveglio di un movimento di protesta coincide con il reintegro progressivo della Siria nel mondo arabo dopo un decennio vissuto ai margini. Damasco è stata infatti riammessa nella Lega araba e ha ripreso i contatti con le monarchie del Golfo.
Questo ritorno della Siria sulla scena internazionale fa parte di una ricomposizione politica regionale, ma non corrisponde a una normalizzazione della situazione all’interno del paese. La Siria è devastata dalle conseguenze di un decennio di repressione e guerra, con milioni di rifugiati che vivono ancora all’estero. Oggi le condizioni per il loro ritorno continuano a non sussistere, così come quelle della ricostruzione.
Dopo aver salvato il suo regime, Assad non ha fatto nulla per riavviare un dialogo politico
Le ferite siriane non sono guarite, come dimostrano gli scontri violenti in corso a nord tra milizie curde e combattenti arabi sunniti, frutto di rivalità storiche che tornano a farsi sentire. Il risultato sono decine di morti degli ultimi giorni e l’intervento dell’aviazione russa, che in piena guerra in Ucraina continua a bombardare la Siria.
Oggi in Siria non sono percepibili cambiamenti di rilievo. Il governo di Bashar al Assad, con l’appoggio decisivo della Russia e dell’Iran, è riuscito a recuperare la maggior parte del paese, anche se una sacca ribelle sopravvive nel nordovest e le milizie curde controllano il nordest.
Dopo aver salvato il suo regime, Assad non ha fatto nulla per riavviare un dialogo politico o anche solo per aprire la porta a una riconciliazione. Nel contesto estremamente teso della guerra in Ucraina, qualsiasi passo avanti sembra impossibile.
Resta il risveglio della popolazione, con lo straordinario coraggio di chi osa contestare il regime. Ma anche in quest’ottica le speranze sono minime. Come spiega l’intellettuale dissidente siriano Yassin al Haj Saleh sul quotidiano di Beirut L’Orient-Le Jour, “la fragilità militare e ideologica del regime di Damasco è reale, ma Assad si tiene in piede grazie ai suoi alleati”.
Ovviamente Al Haj Saleh si riferisce all’Iran e alla Russia, i due paesi che in questi ultimi anni sono stati per il regime siriano una sorta di assicurazione sulla vita.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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