C’è qualcosa d’incomprensibile nella normalizzazione accelerata dei rapporti diplomatici tra un numero crescente di regimi arabi e quello siriano di Bashar al Assad. A febbraio e a marzo ci sono state le visite del dittatore siriano a Mascate, in Oman, e ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti; sempre a febbraio il ministro degli esteri egiziano è andato a Damasco; e il 14 aprile a Riyadh, in Arabia Saudita, si è tenuto un incontro in cui i rappresentanti di nove paesi della regione hanno discusso il ritorno della Siria all’interno della Lega araba, dopo dodici anni di sospensione. I fattori suggeriti dagli analisti per spiegare questo dietrofront lasciano perplessi. Ma cerchiamo comunque di seguire la loro logica.

Il riavvicinamento è motivato dalla volontà di cacciare l’Iran dalla Siria o d’indebolire la sua influenza, come affermano alcuni osservatori? Sembra un obiettivo improbabile. L’Iran è ben radicato in Siria, e il rapporto tra i due regimi è troppo profondo e solido perché Damasco possa disfarsene. Il regime di Assad non può rompere o indebolire i suoi legami con Teheran, e neanche vuole farlo. Perché dovrebbe? L’Iran l’ha salvato e gli ha dato una ragione di esistere: la lotta contro il “terrorismo” e l’appartenenza all’“asse della resistenza”, due elementi che sul piano socioculturale si accordano bene con il regime di Assad. Il primo crea una vicinanza con la politica degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita (ma anche con gli Stati Uniti, la Russia e altri); il secondo fornisce una copertura ideologica a un’alleanza regionale su base confessionale che è organicamente orientata contro i paesi arabi, i sauditi in particolare, che ha al centro Teheran.

Fino in fondo

La Lega araba è molto meno importante per il regime. È solo un “gioco”, proprio come l’Onu (lo dichiarò lo stesso Assad all’emittente statunitense Abc nel 2011). Approfittare della presenza della Siria in queste due organizzazioni è sempre utile, ma si tratta soprattutto di preservare il potere, un potere assoluto e permanente di cui l’Iran è garante. In Libano, in Iraq, nello Yemen e nella stessa Siria, Teheran ha dimostrato di essere pronta ad andare fino in fondo per imporsi. Di conseguenza, se i leader degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita (e di Giordania, Algeria ed Egitto) pensano davvero che normalizzando le loro relazioni con Damasco si allontaneranno da Teheran, si sbagliano miseramente, e non potranno che uscire perdenti dal “gioco”.

Forse il riavvicinamento è motivato dalla volontà di stabilizzare le lotte interne alla regione? Gli Emirati Arabi Uniti hanno normalizzato i rapporti con Israele; l’Arabia Saudita si riavvicina all’Iran e invia segnali distensivi a Tel Aviv; Riyadh e Abu Dhabi fanno un passo indietro rispetto allo Yemen. Ma a parte il fatto che questo significa tollerare un governo che ha ucciso mezzo milione di suoi cittadini, ha prodotto sette milioni di sfollati e ha distrutto molte delle sue città, la vera domanda è: il regime siriano vuole stabilizzare la regione?

La sua storia nell’ultimo mezzo secolo abbondante, non solo in Siria ma anche in Libano, in Iraq e in Turchia, non depone a favore di quest’ipotesi. Il carattere bellicoso del regime è inscritto nella sua natura di sistema familiare che aspira a restare al potere per sempre in un paese che era una repubblica, contrariamente agli stati del Golfo, dove dinastie e nazioni si sono formate insieme. Gli Assad sono arrivati al potere con un colpo di stato: un golpe permanente contro lo stato e la società siriane, che ha elevato la brutalità a forma di governo. La rivoluzione fallita del 2011 non ha fatto che consolidare la sua natura guerriera.

Si tratta allora di aiutare il popolo siriano che tanto soffre dal marzo del 2011? Purtroppo sembra che i sostenitori della normalizzazione non si siano presi la briga di dire una parola sulla sorte delle 111mila persone scomparse; sul ritorno in sicurezza dei circa due milioni di profughi che vivono in condizioni pessime in Libano e in Giordania; sul futuro dei 3,7 milioni che si trovano in una situazione sempre peggiore in Turchia; o su quello di mezzo milione di siriani in Iraq e in Egitto. Inoltre, il regime siriano non è solo corrotto, ma anche mafioso e criminale, e si approprierà di tutti gli aiuti che i donatori regionali e internazionali potranno concedere, riducendo al minimo il loro impatto sul livello di sofferenza umana nel paese.

Forse un recupero dei rapporti con questo regime “chimico” riflette una sorta di presa di coscienza del ritiro degli Stati Uniti dal Medio Oriente e dei rischi legati all’emergere di centri di potere regionali in espansione che hanno buoni rapporti con la Russia, la Cina e i loro alleati. In questa prospettiva la normalizzazione con il regime assassino è forse un gioco con gli statunitensi, che all’epoca del presidente Barack Obama hanno trattato gli alleati sauditi in un modo considerato irrispettoso e che sono riluttanti a trattare con il principe ereditario Mohammed bin Salman? Se in politica non si possono negare le emozioni e il rancore, in particolare da parte di élite non elette e che non rispondono del loro operato, il riavvicinamento all’Iran e al suo protetto in Siria somiglia a un tentativo di “trovare rifugio nel fuoco in caso di calore estremo”, come recita un vecchio proverbio arabo.

O forse si tratta di uno scambio che riguarda lo Yemen e la Siria? Gli iraniani riducono il loro avamposto legato ai ribelli sciiti huthi e i sauditi normalizzano il loro avamposto a Damasco, dando così al dominio dell’Iran sulla Siria (senza parlare dell’Iraq e del Libano) una legittimità araba. Se è così, non è affatto una scelta razionale.

In ogni caso è impensabile che la normalizzazione dei rapporti con il regime siriano sia avvenuta perché gli stati arabi hanno in qualche modo ceduto a un ricatto implicito di Bashar al Assad, che è riuscito a trasformare la Siria in un narco-stato e a contrabbandare le pillole di captagon (un’anfetamina) verso i mercati del Golfo. Tanto più che per il regime l’impero della droga diretto da Maher al Assad, fratello di Bashar (che pare sia andato in Arabia Saudita qualche settimana fa), probabilmente non è solo una questione di soldi: è una guerra per distruggere la società saudita dall’interno, com’è avvenuto in Siria.

Un sistema reazionario

Il recupero dei rapporti degli Emirati e dell’Arabia Saudita con il regime di Assad è dunque senza basi logiche. Ma forse è possibile trovare una spiegazione abbastanza “razionale” restando nel campo dell’irrazionale. Questa spiegazione sta, a mio avviso, in un comune ideale estremo, condiviso dalle “élite” arabe: realizzare politiche senza politica, senza diritti, senza dibattito, senza neppure una società, una “dubaizzazione” di vari paesi arabi. Un progetto che consiste in una modernità strettamente materiale, fatta di cieli sorvegliati da oligarchi ricchissimi e condizioni di semi-schiavitù per la maggioranza.

Questo è il senso di iniziative come le città futuristiche di Neom e The Line di Mohammed bin Salman, della futura capitale amministrativa voluta dal regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi, e dei sogni di ricostruzione come Marota City (un progetto immobiliare di lusso a Damasco) dell’élite siriana della droga.

Chi si somiglia si piglia, e queste aristocrazie predatrici e criminali, anche se derivano da contesti diversi, condividono un’utopia modernista e fascisteggiante. Le questioni della giustizia, della dignità umana e dei rapporti sociali sono intraducibili nel loro linguaggio. In questa prospettiva l’uccisione di massa non è un ostacolo alla normalizzazione. Al contrario, può costituire un estremo rimedio in caso di bisogno.

Sembra che un nuovo sistema arabo stia emergendo: un sistema reazionario, brutale e incentrato sull’annientamento di qualunque movimento popolare. Ci aspettano tempi difficili. ◆ fdl

Yassin al Haj Saleh è uno scrittore e dissidente siriano. È stato prigioniero politico dal 1980 al 1996. Ha scritto diversi volumi sulla Siria, sulla prigionia e sull’islam contemporaneo. È uno dei fondatori del sito di informazione e approfondimento Al Jumhuriya. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Siria, la rivoluzione impossibile (Mreditori 2021). Dal 2013 vive in esilio a Berlino.

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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati