16 ottobre 2013 16:42

La chiamano “la soluzione biologica”: non è quella finale, ma è biologicamente definitiva. “Due tre anni al massimo”, dicono al centro Simon Wiesenthal in Israele, “e non ci sarà più nessuno da poter catturare”. Non ci saranno neanche altri Priebke da contestare, anche se attualmente, come sottolinea il rapporto per il 2012 ancora oggi sono ricercati una decina di ex ufficiali. Tra loro anche Gherard Sommer, condannato all’ergastolo in Italia per la partecipazione al massacro di Sant’Anna di Stazzema, in cui furono uccisi 560 civili.

Qualche anno fa, in occasione dei cinquant’anni dal celebre processo a Eichmann e la morte (da uomo libero) di John Demjanjuk, ex guardia carceraria di un campo di sterminio nazista conosciuto come “il boia di Sobibor”, il centro Wiesenthal ha promosso l’operazione “Ultima occasione” per la cattura dei criminali nazisti, offrendo un premio in denaro a chi saprà dare un reale contribuito al ritrovamento dei ricercati.

Ma più passa il tempo, più le probabilità di trovare e condannare criminali nazisti diminuisce. La maggior parte dei ricercati ha più di novant’anni (godono quasi tutti di una sorprendente e irritante longevità) e anche le testimonianze diventano sempre più confuse e perdono attendibilità.

“Gli ebrei non dovrebbero prendersela a distanza di sessant’anni e a guerra finita”, diceva il figlio di Priebke subito dopo la morte del padre, qualche giorno fa. A quanto pare non è l’unico a pensarla così, visto che negli ultimi dieci anni oltre duemila inchieste contro criminali nazisti hanno condotto ad appena ottanta condanne. Inoltre talvolta, per motivi di salute o di età, non è stata nemmeno applicata la pena.

La vicenda di Priebke è una triste vicenda priva di un’accettabile fine e di una morale. La vita di Priebke e la sua morte meriterebbero solo silenzio e freddezza, gli unici sentimenti in grado (forse) di dare una forma al dolore e alla rabbia.

Rabbia non per un boia morto, che anche in fin di vita si è dichiarato vittima di un “affare ebraico”, ma per oltre i 600mila ebrei sopravvissuti e sparsi nel mondo. All’epoca erano bambini, oggi non sono più giovani. Sono ancora in grado di trasmettere e raccontare le loro testimonianze ma tra poco non ci saranno più. Le loro storie non saranno più raccontate.

A queste vite e alle morti dell’orrore bisognerebbe dedicare tempo e attenzione. Per non lasciare spazio alla vita e alla morte di chi deve essere dimenticato.

In silenzio.

E senza perdono.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it