05 novembre 2014 15:35

Nel 2011 l’Onu aveva espresso la sua preoccupazione per le gravi disuguaglianze tra uomini e donne nel diritto di famiglia israeliano.

Nello stesso anno è stato proposto e bocciato un disegno legge che avrebbe permesso agli israeliani di poter scegliere tra matrimonio civile e matrimonio religioso. Una scelta che ancora oggi, nel 2014, rimane del tutto assente anche nella cosiddetta unica democrazia del Medio Oriente, dove il solo matrimonio riconosciuto rimane quello rabbinico.

Una difficoltà che riguarda molti, come ha scritto di recente il quotidiano Ha’aretz, sia le coppie eterosessuali non ebree sia quelle omosessuali.

Lo stesso giornale ha lanciato nel giugno del 2014 una campagna a favore dei matrimoni misti in Israele, suscitando l’immediata reazione dell’opinione pubblica che secondo le ultime rilevazioni è sempre più disposta a partecipare e ad appoggiare la battaglia per la libertà di religione in Israele.

Israele è l’unica democrazia tra i 45 paesi al mondo - come Pakistan, Afganistan e Iran - dove ancora oggi la libertà religiosa e l’uguaglianza tra donne e uomini sono fortemente limitate.

Il matrimonio tuttavia è solo una parte del problema, che diventa complesso e discriminante quando si arriva al divorzio. Anch’esso naturalmente rabbinico, di fronte a un bet din, un tribunale religioso, che è l’unica autorità giudiziaria in grado di sciogliere un matrimonio, religioso o civile che sia.

Nella maggior parte dei casi si tratta di una fredda e spiacevole procedura burocratica, ma talvolta il processo diventa kafkiano. Per esempio quando, in assenza di collaborazione da parte del marito, spetta alla moglie la responsabilità di presentare un motivo sufficientemente valido per poter ottenere il sospirato gett, il divorzio, celebrato alla presenza di due testimoni e durante il quale il marito dichiara che il matrimonio è finito e quindi sua moglie è libera.

In 115 ipnotizzanti minuti girati in un unico ambiente, per l’appunto il tribunale, è documentata e riprodotta in maniera emozionante una battaglia, una delle tante per la libertà personale. Si tratta della battaglia di Viviane Amsalem, la protagonista del film Gett: hamishpat shel Viviane Amsalem che ha aperto il 1 novembre a Roma il festival del cinema israeliano, il Pitigliani Kolno’a festival, e dal 20 novembre sarà nelle sale italiane.

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Il film, giudicato da Variety come uno dei 12 lavori stranieri da candidare all’Oscar, ha ottenuto applausi entusiasti al festival di Cannes, dove i critici cinematografici hanno paragonato Ronit Elkabetz, attrice protagonista nonché regista, ad Anna Magnani. Mentre il film nel suo complesso è stato messo sullo stesso piano di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman e di Processo a Giovanna d’Arco di Robert Bresson.

Tuttavia, la forza di questa straordinaria opera cinematografica va oltre la sempre più sentita e ben documentata protesta contro il “monopolio religioso che non ha uguali nelle democrazie occidentali”.

Perché riesce a raccontare con passione e brutale autenticità una lunga e dolorosa attesa di una donna, che vuole tornare a essere libera e non dover mai più appartenere a nessuno.

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