15 ottobre 2010 17:31

L’espulsione dalla Francia dei rom (“zingari”) senza diritto di cittadinanza, rispediti in Romania, ha suscitato vivaci proteste da parte dei mezzi d’informazione liberali e di esponenti politici di primo piano in tutta Europa, e non solo di sinistra. Eppure le espulsioni continuano e sono solo la punta di un iceberg della politica europea.

Poco più di un mese fa Thilo Sarrazin, un banchiere considerato politicamente vicino ai socialdemocratici, ha suscitato molto scalpore in Germania pubblicando un libro in cui sostiene che il carattere nazionale tedesco sarebbe minacciato dai troppi immigrati a cui è consentito conservare la propria identità culturale. Il libro ha ricevuto critiche quasi unanimemente severe, ma questo dimostra che ha toccato un nervo scoperto nell’opinione pubblica.

Gli episodi come questo vanno visti nel contesto di un riassetto a lungo termine dello spazio politico nell’Europa occidentale e orientale. Fino a poco tempo fa, nei paesi europei dominavano in genere due grandi partiti politici che si rivolgevano all’intero corpo elettorale, un partito di centrodestra (cristianodemocratici, liberalconservatori, popolari e via dicendo) e uno di centrosinistra (socialisti, socialdemocratici eccetera), con alcuni partiti più piccoli che si rivolgevano a un elettorato più circoscritto (ecologisti, comunisti e altri). Ma gli ultimi risultati elettorali, a est come a ovest, segnalano che sta emergendo una polarità di tipo diverso.

Come siamo arrivati a questo punto?

C’è una formazione centrista dominante che rappresenta il capitalismo globale tout court, di solito con un orientamento culturale liberal (tolleranza per l’aborto, diritti dei gay, minoranze etniche e religiose), a cui si oppone un partito anti-immigrati sempre più forte accompagnato, ai margini, da gruppi neofascisti dichiaratamente razzisti. L’esempio perfetto è quello della Polonia: dopo la scomparsa degli ex comunisti, le formazioni principali sono il partito liberale “anti-ideo­logico” di centro del primo ministro Donald Tusk e il partito cristiano conservatore di Kaczyński. Vediamo tendenze analoghe in Norvegia, Paesi Bassi, Ungheria… Come siamo arrivati a questo punto?

Dopo i decenni (della promessa) dello stato sociale, quando i tagli finanziari erano limitati a brevi periodi e sostenuti dall’assicurazione che le cose sarebbero presto tornate normali, stiamo entrando in una nuova epoca in cui la crisi – o, piuttosto, una sorta di situazione economica d’emergenza – con l’esigenza di misure di austerità di ogni tipo (come tagliare l’assistenza sanitaria e la pubblica istruzione gratuite, rendere i posti di lavoro sempre più precari) è permanente, diventa semplicemente uno stile di vita.

Dopo la disintegrazione dei regimi comunisti nel 1990 siamo entrati in una nuova era, in cui la forma prevalente di esercizio del potere statale è un’abile amministrazione depoliticizzata e il coordinamento dei vari interessi. L’unico modo per introdurre la passione e mobilitare i cittadini è con la paura: paura degli immigrati, paura della criminalità, paura di una malvagia depravazione sessuale, paura della presenza eccessiva dello stato (con il peso delle tasse e dei controlli), paura di una catastrofe ecologica, ma anche paura delle molestie (la correttezza politica è la forma esemplare della politica della paura liberal).

Uomini e donne spaventati

Una politica di questo genere poggia sempre sulla manipolazione di un ochlos paranoico: una moltitudine spaventosa di uomini e donne spaventati. Proprio per questo il grande avvenimento dei primi anni del nuovo millennio è stato che la politica anti-immigrazione è diventata un fenomeno generale e finalmente ha tagliato il cordone ombelicale che la univa ai partiti di estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria ai Paesi Bassi, nel nuovo spirito di orgoglio per la propria identità storica e culturale i partiti maggiori ora trovano accettabile sottolineare come gli immigrati siano ospiti e quindi debbano adattarsi ai valori culturali che definiscono la società ospitante: “È il nostro paese, amarlo o lasciarlo”.

È essenziale notare che la tolleranza liberal progressista condivide con questo atteggiamento alcune premesse fondamentali: alla sua richiesta di rispettare gli altri (che sono altri da un punto di vista etnico, religioso, sessuale) e all’apertura nei loro confronti fa da contrappunto una paura ossessiva delle molestie. In breve, l’altro va benissimo, ma solo se la sua presenza non è invadente, solo nella misura in cui questo altro non è veramente altro. Il mio dovere di essere tollerante verso l’altro in realtà significa che non dovrei avvicinarmi troppo a lui, invadere il suo spazio. In altri termini, dovrei rispettare la sua intolleranza per la mia eccessiva vicinanza. Quello che sempre più spesso emerge come il diritto umano fondamentale della tarda società capitalistica è il diritto di non essere molestato, vale a dire il diritto di rimanere a una distanza di sicurezza dagli altri.

Non stupisce che negli ultimi tempi si stia affermando il concetto di “personalità tossica”. Questo concetto ha origine nella psicologia popolare e vuole metterci in guardia dai vampiri di emozioni che vivono alle nostre spalle, ma ora si sta ampliando ben oltre il campo delle relazioni interpersonali: l’aggettivo “tossico” si riferisce a una serie di elementi che appartengono a livelli completamente diversi (naturale, culturale, psicologico, politico). Una personalità tossica può essere un immigrato con una malattia mortale che va messo in quarantena, un terrorista con piani di morte che bisogna sventare e che dovrebbe essere rinchiuso a Guantánamo (lo spazio vuoto a cui non si applica lo stato di diritto), un ideologo fondamentalista che si dovrebbe mettere a tacere perché diffonde odio, un genitore, un insegnante o un sacerdote che abusa dei bambini e li corrompe.

Non c’è forse qualcosa di tossico nell’idea stessa di genitore, questo mediatore parassitico che assoggetta il soggetto a un’autorità proprio mentre vuole renderlo libero e autonomo? A essere tossico, in ultima analisi, è lo straniero in quanto tale, con l’abisso dei suoi piaceri e delle sue credenze, così che l’obiettivo ultimo di tutte le norme delle relazioni interpersonali è mettere in quarantena, o quanto meno neutralizzare e contenere, questa dimensione tossica riducendo il prossimo a un uomo come noi.

Sul mercato di oggi troviamo tutta una serie di prodotti privati della loro sostanza dannosa: caffè senza caffeina, panna senza grasso, birra senza alcol. L’elenco potrebbe continuare: il sesso virtuale come sesso senza sesso, la dottrina Powell della guerra senza vittime (dalla nostra parte, ovviamente) come guerra senza guerra, la trasformazione della politica nell’arte dell’amministrazione esperta come politica senza politica, fino al multiculturalismo tollerante di oggi come un’esperienza dell’altro privato della sua alterità, l’altro decaffeinato, che fa danze affascinanti e ha un approccio olistico ecologicamente sano alla realtà, mentre dettagli come le percosse alla moglie rimangono fuori dalla visuale.

Il meccanismo di questa neutralizzazione venne formulato già nel 1938 da Robert Brasillach, l’intellettuale francese fascista condannato e fucilato nel 1945, che si considerava un antisemita moderato e inventò la formula dell’antisemitismo ragionevole: “Ci concediamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin, un mezzo ebreo, al cinema; di ammirare Proust, un mezzo ebreo; di battere le mani a Yehudi Menuhin, ebreo; e la voce di Hitler è diffusa da onde radio chiamate con il nome dell’ebreo Hertz. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per ostacolare le azioni sempre imprevedibili dell’antisemitismo istintivo sia quello di organizzare un antisemitismo ragionevole”.

Non vediamo forse lo stesso atteggiamento nel modo in cui i nostri governi affrontano la “minaccia degli immigrati”? Dopo aver giustamente respinto l’esplicito razzismo populista come “irragionevole” e inaccettabile per i nostri standard democratici, appoggiano misure protettive “ragionevolmente” razziste. Come ci dicono i Brasillach di oggi, in alcuni casi perfino socialdemocratici: ci permettiamo di applaudire gli sportivi africani ed europei dell’est, i medici asiatici, i programmatori indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per porre fine alle violente e imprevedibili misure difensive contro gli immigrati sia quello di organizzare una ragionevole protezione dagli immigrati.

Questa visione di detossificazione del prossimo mostra un evidente passaggio dalla barbarie assoluta alla barbarie dal volto umano. In pratica, una regressione dall’amore cristiano per il prossimo alla tradizione pagana di privilegiare la nostra tribù (greci, romani) contro l’Altro barbarico. Anche se si ammanta della difesa dei valori cristiani, è questa la più grave minaccia al retaggio cristiano.

*Traduzione di Gigi Cavallo.

Internazionale, numero 868, 15 ottobre 2010*

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