06 febbraio 2011 15:30

Una delle cose che colpisce di più, nelle rivolte scoppiate in Tunisia e in Egitto, è l’evidente assenza del fondamentalismo islamico. Nella migliore tradizione della democrazia laica, le persone si sono semplicemente ribellate contro un regime oppressivo e corrotto e contro la povertà, chiedendo libertà e speranza economica.

È stata così smentita la cinica visione dei liberali occidentali, convinti che nei paesi arabi i sentimenti democratici riguardino solo una ristretta élite liberale, mentre la stragrande maggioranza della popolazione si lascia mobilitare solo attraverso il fondamentalismo religioso o il nazionalismo. Ora la domanda è: cosa succederà? Chi uscirà vincitore sul piano politico?

Quando è stato nominato un governo provvisorio in Tunisia, si è deciso di escluderne gli esponenti dei partiti islamici e della sinistra più radicale. Commento gongolante dei liberali: bene, tanto sono la stessa cosa, due estremi totalitaristici. Ma è davvero tutto così semplice? E se invece l’antagonismo principale e a lungo termine fosse proprio quello tra gli islamisti e la sinistra?

Anche se sono momentaneamente uniti contro il regime, avvicinandosi alla vittoria la loro unione si spezzerà, e le due parti cominceranno una lotta mortale, probabilmente più crudele di quella portata avanti contro il nemico comune.

La fine della rivoluzione verde

Non è andata forse così in Iran, dopo le ultime elezioni? Centinaia di migliaia di sostenitori di Mir Hossein Mousavi si sono ribellati in nome del sogno popolare che aveva ispirato la rivoluzione di Khomeini: libertà e giustizia. Anche se è un’utopia, quel sogno ha provocato un’incredibile esplosione di creatività politica e sociale, nuove forme di organizzazione e dibattiti tra gli studenti e tra la gente comune. È stata un’autentica apertura, che ha scatenato forze fin lì sconosciute e decise a promuovere una trasformazione sociale. Ma quel momento in cui tutto sembrava possibile è stato a poco a poco soffocato dall’insediamento dell’establishment islamico ai vertici del potere.

Anche di fronte a movimenti dichiaratamente fondamentalisti, non bisognerebbe mai trascurare la loro componente sociale. I taliban sono regolarmente descritti come un gruppo fondamentalista islamico che impone il suo dominio con il terrore. Tuttavia, quando nella primavera del 2009 hanno preso il controllo del distretto di Swat, in Pakistan, il New York Times ha scritto che i taliban avevano “architettato una rivolta di classe, sfruttando le profonde fratture tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e gli agricoltori senza terra”.

Quindi, secondo il quotidiano, i taliban hanno “approfittato” della miseria dei contadini, creando una “situazione rischiosa per il Pakistan, un paese ancora in gran parte feudale”. Per quale motivo, verrebbe da chiedersi, gli Stati Uniti e i liberal-democratici in Pakistan non hanno “approfittato” anche loro di questa miseria per provare a difendere i contadini senza terra? Forse perché le forze feudali in Pakistan sono alleate naturali della democrazia liberale?

La logica conclusione è che l’ascesa dell’islamismo radicale è sempre andata di pari passo con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani. L’Afghanistan è descritto come il paese islamico e fondamentalista per eccellenza: chi ricorda, oggi, che quarant’anni fa era un paese con una forte tradizione secolare, dove un potente partito comunista aveva preso il potere indipendentemente dall’Unione Sovietica? Che fine ha fatto quella tradizione secolare?

Allearsi per vincere

È alla luce di questi fatti che dobbiamo leggere quando sta succedendo in Tunisia e in Egitto (e in Yemen e, speriamo, anche in Arabia Saudita). Se la situazione dovesse stabilizzarsi e il vecchio regime riuscisse a sopravvivere con qualche ritocco, la reazione fondamentalista sarebbe inarrestabile. Per salvare la loro fondamentale eredità, i liberali hanno bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale.

Tornando all’Egitto, il commento più vergognoso e pericolosamente opportunista è stato quello di Tony Blair, riportato dalla Cnn: il cambiamento è necessario, ma dev’essere un cambiamento stabile. Un cambiamento stabile, oggi, in Egitto, può voler dire solo una cosa: un compromesso con le forze di Mubarak, che porterebbe a un piccolo allargamento della cerchia di potere. Ecco perché parlare di transizione pacifica, ora, è scandaloso: soffocando l’opposizione, Mubarak ha reso quest’ipotesi impossibile.

Dopo che Mubarak ha inviato l’esercito contro i manifestanti, l’alternativa è diventata chiara: o un ritocco di facciata, in cui qualcosa cambia perché tutto possa rimanere uguale, o una vera rottura.

È il momento della verità: nessuno può affermare, com’è successo per l’Algeria dieci anni fa, che permettere elezioni libere equivarrebbe a consegnare il potere ai fondamentalisti islamici. I liberali hanno anche un’altra preoccupazione. Quando Mubarak uscirà di scena, dicono, non ci sarà nessuna forza politica organizzata per sostituirlo. Che scoperta: ci ha pensato Mubarak a trasformare qualunque forma di opposizione in un dettaglio decorativo, con un risultato che ricorda la trama di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. L’argomento a favore di Mubarak – o lui o il caos – è in realtà un argomento a suo sfavore.

L’ipocrisia dei liberal occidentali lascia senza parole: pubblicamente hanno sempre sostenuto la democrazia, ma ora che la gente si rivolta contro i tiranni in nome della libertà e della giustizia, e non in nome della religione, ecco che si preoccupano. Perché preoccuparsi? Perché non rallegrarsi del fatto che la libertà potrebbe trionfare? Oggi più che mai vale il vecchio motto di Mao Zedong: “Grande è la confusione sotto il cielo - la situazione è ottima”.

Dov’è, quindi, che dovrebbe andare Mubarak? Anche qui, la risposta è ovvia: all’Aja. Se c’è un leader che merita di finire lì, è lui.

Traduzione di Francesca Spinelli.

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