Cinquant’anni fa, dopo una serie di guerre che avevano messo in ginocchio la Colombia, nel paese arrivò finalmente la pace. Dopo la dittatura di Gustavo Rojas Pinilla, un accordo consentì al Partito liberale e ai conservatori di alternarsi al potere per sedici anni. Dal 1957 la democrazia colombiana cominciò a stabilizzarsi. Nel 1991, quando era ormai evidente che il narcotraffico tesseva le fila della politica e imponeva i suoi uomini al potere, la costituzione fu riformata per impedire la

rielezione del presidente per un secondo mandato. Fu un fatto importante per la difesa delle istituzioni e per evitare che la corruzione dilagasse.

Oggi, dopo due mandati, l’ex liberale Álvaro Uribe ha sconfitto la guerriglia, ha messo alle strette i cartelli di Cali e Medellín ed è riuscito a estradare negli Stati Uniti decine di boss del narcotraffico. La sensazione di vivere in pace si è impadronita della Colombia e Uribe è diventato molto popolare. Per lui rimanere al potere è una tentazione irresistibile. Chi lo corteggia ripete sempre gli stessi argomenti: il presidente ha bisogno di più tempo per terminare il suo lavoro. Una legge gli ha già permesso di essere eletto per una seconda volta. Adesso un “referendum popolare per la rielezione”, approvato dal congresso a schiacciante maggioranza, lo autorizza a presentarsi per il terzo mandato. Uribe ha tempo fino al 30 novembre per dire ufficialmente se vuole ripresentarsi. È un’abile mossa per lanciarsi in un’avventura in cui non corre rischi. I sondaggi gli assegnano dal 63 al 70 per cento dei consensi. Gli basterà candidarsi per vincere al primo turno, ma prima deve aspettare. La realtà, e non la buona volontà degli elettori, gli sta dando qualche dispiacere.

All’inizio del 2009 sono stati trovati i cadaveri di 19 ragazzi in due paesi del dipartimento del nord di Santander, vicino alla frontiera con il Venezuela. L’esercito ha detto che erano guerriglieri morti in combattimento. Sembrava l’ennesimo successo militare del presidente Uribe contro la guerriglia. Le vittime però non erano guerriglieri, ma contadini e ragazzi umili della periferia di Bogotá, a cui ufficiali senza scrupoli, d’accordo con paramilitari criminali, avevano promesso lavoro e una vita meno misera fuori dalla capitale. Credevano di assicurarsi le medaglie che il governo aveva promesso a chi avesse “servito meglio la patria”, invece sono stati uccisi e travestiti da guerriglieri.

Lo scandalo ha commosso la Colombia e quando si è saputo che non si è trattato di un episodio isolato ma di una macabra routine, sulla presidenza è caduta un’ombra difficile da dimenticare. I casi sono già più di mille e indicano quanto sia profondamente corrotto l’esercito colombiano. Uribe si è indignato e ministri, generali e ufficiali sono stati costretti alle dimissioni.

Qual è il segnale del successo di Uribe? Tanto per cominciare non ha mai voluto trattare con la guerriglia. Non aveva ancora trent’anni quando suo padre fu ucciso dalle Farc e quest’amaro ricordo ha segnato la sua vita. Durante la campagna per la sua prima presidenza come candidato dissidente del Partito liberale, Uribe non ha nascosto la durezza estrema delle misure che voleva prendere né il suo profilo conservatore. Non era disposto a fallire, e non ha fallito, anche se le spese militari sono schizzate alle stelle. La fortuna l’ha aiutato: il 26 marzo del 2008 una malattia ha ucciso Manuel Marulanda, detto Tirofijo, comandante e fondatore delle Farc.

La popolarità ha esaltato Uribe, contagiato dal virus latinoamericano della rielezione. Da quando ha accettato l’idea di un terzo mandato, però, alcune cose hanno cominciato a non andare per il verso giusto. Per la prima volta in più di dieci anni, la Colombia nel 2009 registrerà una crescita negativa. La povertà rimane, e c’è un’enorme differenza nella qualità della vita tra i ricchi e i poveri.

La sua difesa granitica degli ideali conservatori continua ad attrarre gli investitori stranieri, che si sentono rassicurati dal presidente colombiano. Gli elettori si dicono felici di vivere in pace dopo decenni di guerre di tutti contro tutti. La maggior parte dei colombiani non è preoccupata dal prezzo di questa pace. Uribe offre risultati eloquenti dove tutti hanno fallito: i sequestri sono diminuiti dell’85 per cento, i boss del narcotraffico, scovati grazie a un’accurata rete di spionaggio e ai pentiti, sono stati subito estradati in massa negli Stati Uniti, dove li accolgono carcerieri indifferenti alla corruzione e alle minacce.

Diversamente dalla maggior parte dei presidenti latinoamericani, che arrivano logorati alla fine del mandato, nessuna nube sembra oscurare la popolarità di Uribe. Le sue aspirazioni non si limitano solo alla possibilità di una terza rielezione. Vuole un posto nella storia. Forse l’ha già conquistato, ma è ancora presto per dire se è un bel posto o no.

Da Napoleone in poi (Uribe lo ammira molto), nessuno ha sfidato le istituzioni senza pagare un prezzo molto alto.

Tomás Eloy Martínez è uno scrittore e giornalista argentino, nato a Tucumán nel 1934.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it