23 settembre 2018 10:02

Una mattina mi sono svegliata e ho trovato ciocche di miei capelli tagliuzzati nel cestino del bagno. Così mi sono ricordata che la sera prima, rincasando dopo aver bevuto qualche bicchiere di vino, avevo avuto la geniale idea di darmi una sistemata alla frangetta. Ero stata agli Aim awards, la cerimonia annuale organizzata dalla Association of independent music per dare un riconoscimento agli artisti del panorama musicale indipendente e con mio immenso onore ho ricevuto il premio per lo straordinario contributo alla musica. I capelli nella pattumiera sono la testimonianza del fatto che, con la capigliatura, come con la musica, ho sempre preferito un approccio “fai-da-te”.

Ormai quasi quaranta anni fa, ho registrato il primo album con la mia band di allora, le Marine Girls: il che significa che avevamo inciso le nostre canzoni con un registratore a otto tracce, avevamo portato la cassetta a uno studio che ce ne aveva fatto cinquanta copie, poi avevamo colorato a mano le custodie nelle nostre camerette, avevamo venduto qualche cassetta agli amici e avevamo messo un annuncio sul retro di New Musical Express. Se mi mandavi un ordine per posta al mio indirizzo di casa, o meglio a casa dei miei, ti spedivo una cassetta: anche agli esordi ero il più indipendente possibile.

Poi avevamo firmato un contratto con la Cherry Red Records; il capo, Iain McNay, nel 1980 aveva avuto l’idea di creare una classifica di dischi indipendenti. Ho un ritaglio della classifica indie del 1982 con Night and day degli Everything But The Girl al primo posto e On my mind delle Marine Girls al nono.

La scena indipendente si è in realtà sempre basata sul fare musica per amore

Le mie radici sono in quell’era del punk e del post-punk, in quel momento particolarissimo di indipendenza. C’erano già piccole etichette che pubblicavano musica di tutti i tipi, ma il boom della fine degli anni settanta era incentrato sui gruppi che facevano lo-fi garage e sugli antirockettari provocatori, fermamente devoti agli ideali delle piccole produzioni indipendenti: il rifiuto dei cliché e una fede quasi politica in nozioni come la demistificazione e il rifiuto della celebrità.

Questi valori sono l’essenza della parola indie e, ironia della sorte, nel tempo ne sono diventati la definizione, ma anche la prigione. Quando poi indie ha cominciato a riferirsi più a una serie di regole su giacche e frange, su come bisogna tenere la chitarra e su come non usare l’asta del microfono, ho cominciato a sentire che per me stava perdendo utilità come ideale progressista e me ne sono distaccata.

La sera degli Aim awards, però, alla cerimonia di premiazione, ho potuto ricordare il vero significato e il valore della scena musicale indipendente. Sono stati premiati Jorja Smith, Peggy Gou, Dave, Idles, Erasure, Let’s Eat Grandma e l’etichetta Ninja Tune – casa di Bicep, Kelis, Kate Tempest, Wiley e gli Young Fathers. Siamo ben lontani dalla musica indipendente e impegnata fatta da ragazzi con le loro chitarre. La scena indipendente è sempre stata molto più di questo, e sempre lo sarà.

In quella sala si respirava un’energia contagiosa e, spero di non sembrare ipocrita, una certa umiltà. Ognuno ha fatto il suo discorso rispettando i tempi concessi, con riconoscenza e rimanendo sul punto.

Sì, è stato come un incontro di lavoro, non una convention di edonisti e maleducati, e forse la scena indipendente si è in realtà sempre basata sull’etica del lavorare sodo: comprendere che stavi facendo le cose da solo perché nessun altro ti avrebbe dato un’opportunità, avere la consapevolezza del fatto che i soldi non andavano né ostentati né sprecati e condividere la sensazione di stare facendo musica per amore, non necessariamente per arricchirsi.

Nadine Shah ha parlato di profughi e di quanto sia “divertente” per una donna musulmana che indossa il velo essere paragonata a una cassetta della posta. Goldie ha proposto un gioco di parole tra spartito musicale e partita di droga. Infine Sophie, produttrice e musicista scozzese vincitrice del premio all’innovazione, ha insistito sul fatto che tutti gli artisti sono essenzialmente spiriti indipendenti e innovatori.

Quelli tra noi che hanno provato l’incanto dell’abbraccio di una grande etichetta discografica, sforzandosi di far reggere il compromesso, spesso alla fine si sono ritrovati con l’amaro in bocca, sognando un ritorno alla libertà, a quel senso di puro godimento e di potenza ottenuto facendo le cose da sé. Tàgliati i capelli da sola! Fatti il tuo disco da sola! La gioia sfrenata di essere indipendente non passa mai, e ieri sera soffiava nell’aria di quella sala come una brezza fresca.

(Traduzione di Mariachiara Benini)

Questo articolo è stato pubblicato su New Statesman.

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