23 giugno 2010 00:00

Avviato nel 1987 dalla Comunità europea ed ereditato poi dall’Unione, il progetto Erasmus coinvolge ogni anno centinaia di migliaia di studenti universitari nello spostamento dalla propria sede di studio a università di altri paesi: i 27 dell’Unione, a cui si sono aggiunti la Norvegia e altri.

Il nome è un acronimo, European region action scheme for the mobility of university students, costruito per ricordare il grande intellettuale rinascimentale Erasmo da Rotterdam, l’autore dell’Elogio della follia. L’Unione europea si è data per il 2012 l’obiettivo di coinvolgere due milioni di studenti. La cifra dovrebbe crescere fino a toccare il 20 per cento degli iscritti nel 2020.

Gli ostacoli sono parecchi, a cominciare dalla modestia delle cifre che l’Unione mette a disposizione: quest’anno 230 euro mensili per periodi di massimo sei mesi. Le università di partenza integrano questa cifra con borse aggiuntive e, soprattutto, in molti paesi europei le università di arrivo cercano di fornire servizi di vario genere (alloggi, mense) che facilitino la vita agli studenti stranieri, spesso spaesati. Ma, del resto, è proprio l’esperienza dello spaesamento ciò che Erasmus e i progetti collegati vogliono favorire.

Che risultati effettivi ha questa esperienza? In attesa di smentite e di estese rilevazioni oggettive, l’ipotesi è che finora se ne siano avvantaggiati più i docenti meno pigri, spinti a rendersi conto delle diverse modalità di studio di una stessa materia, che non gli studenti stessi.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it