La “generazione Erasmus”, come ama dire l’attuale presidente del consiglio italiano, è un sottoinsieme d’un insieme assai più ampio per area geografica e consistenza numerica.
È l’insieme dei mobile students, degli studenti che compiono gli studi universitari fuori del loro paese. Nel 2010 l’Erasmus aveva coinvolto negli anni circa due milioni di studenti.
Secondo i dati pubblicati dall’Unesco qualche mese fa, solo nel 2013 gli studenti che frequentavano università di paesi diversi dal loro erano più di tre milioni e seicentomila.
Dominano gli orientali: 694.400 cinesi, 189.500 indiani, 123.700 sudcoreani. Per diversi paesi di partenza si intravede che il dispatrio è giustificato da debolezze delle strutture universitarie nazionali.
Per altri, come Germania, Francia e Stati Uniti, non è certo così. Da questi paesi gli studenti si muovono perché vogliono conoscere altre culture o perché sono attratti dal peculiare impianto di un settore degli studi.
I mobile students preferiscono come destinazione diciotto volte su cento gli Stati Uniti, undici il Regno Unito, sette la Francia, sei l’Australia, cinque la Germania, quattro la Federazione russa, quattro il Giappone, tre il Canada, due la Cina e due l’Italia.
A parte le tre nazionalità orientali citate, gli altri più coinvolti nella mobilità sono i tedeschi (117.600) e, a seguire, arabi, francesi, statunitensi, malesi, vietnamiti e iraniani. In Francia, Stati Uniti e altrove (non sempre in Italia) le università mettono molto impegno nell’accoglienza degli stranieri.
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