03 settembre 2015 17:01

I minuti prima della trasmissione sono concitati. Si controlla che tutto funzioni, nonostante la polvere su mixer e computer. Si ripassano domande e nomi: Omar dal Gambia, Akhet dalla Costa d’Avorio, Boubacar dal Senegal, Anassé dal Burkina Faso. Si scuote il generatore, per sentire se la benzina basterà a registrare i trenta minuti destinati a dodici radio italiane e al blog di Radio ghetto – Voci libere.

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Siamo al Gran Ghetto: la più grande tra le città temporanee dei braccianti africani, al confine tra i comuni pugliesi di Foggia, San Severo e Rignano Garganico, che d’estate ospita quasi 2.500 dei lavoratori impegnati in questa zona nella raccolta del pomodoro. L’antenna e i cartelli colorati distinguono la baracca di plastica e cartone di Radio ghetto dalle decine di altre della baraccopoli. Si trasmette, e si vive, tra le puzze dei canali di scolo a cielo aperto e dei mucchi di spazzatura.

Mixer e attrezzature sono installati sotto un portico di legno. S., maliano dalle mani d’oro, lo ha ricostruito a fine luglio, davanti agli sguardi dei volontari arrivati da mezza Italia, ma anche da Portogallo e Spagna, per animare un mese di trasmissioni radiofoniche. Da quattro anni, la radio dà voce ai braccianti in italiano, francese e nelle tante lingue africane parlate al Ghetto.

È nata nell’estate 2012 per iniziativa di una rete di associazioni, Campagne in lotta, e negli anni sono stati in tanti a sostenerla: da Radio Bekwith evangelica, che ha dato in prestito la prima antenna e il trasmettitore, alla fondazione olandese Xminy, con due finanziamenti nel 2013 e 2015. Banchetti e iniziative di autofinanziamento hanno fatto il resto, insieme al costante sostegno delle associazioni Sos Rosarno e Io ci sto (che a sua volta porta al Ghetto circa cinquanta volontari a settimana per tutta l’estate).

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Intanto i microfoni passano di mano in mano, le dita alzano e abbassano i volumi. C’è chi viene per fare il dj, chi solo per ricaricare il cellulare: qui la corrente è gratis, invece empori e ristorantini che sorgono tra le baracche chiedono cinquanta centesimi per ogni ricarica.

I., sudanese, chiede un aiuto con l’italiano perché deve chiamare un call center. M., maliano, cerca qualcuno che possa fargli un’iniezione. Un cassone gli è caduto sul piede, e i medici di Emergency, che quattro giorni la settimana lavorano alle porte del Ghetto, gli hanno prescritto un antinfiammatorio. Come quasi tutti, M., è senza contratto. Dopo l’infortunio, il caporale gli ha dato dieci euro, più la promessa di spostarlo “a lavorare sulla macchina” quando si sarà rimesso in sesto.

T., ventiduenne del Camerun, elegante come se fosse pronto per la discoteca, si presenta per un annuncio: “Ho perso il permesso di soggiorno, correndo per la strada più grande del Ghetto. Ero in ritardo, non volevo perdere il furgoncino del caporale”. Comincia alle quattro del mattino l’andirivieni dei furgoni, spesso rubati, con cui i “capi neri”, gli africani che fanno da mediatori con i proprietari terrieri, trasportano i braccianti nei campi per cinque euro a testa. “La giornata a raccogliere pomodori, pagati 3 euro e 50 ogni trecento chili, comincia stipati nei furgoni, venti o trenta persone alla volta”, spiega Anassé alla radio.

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Le lamentele si alternano alla voglia di riscatto. “I caporali sono ladri, si arricchiscono sulla nostra pelle”, denuncia A., che vive in Umbria. Akhet, ivoriano che spera di iscriversi a medicina, coglie la palla al balzo: “Se rifiutassimo di lavorare, i pomodori marcirebbero sulle piante, e poi saremmo noi a dettare qualche condizione”. Non è semplice organizzare una protesta, chiarisce Yvan Sagnet, oggi sindacalista della Flai-Cgil e tra i protagonisti, nel 2011, di una sollevazione di braccianti nel leccese: “Là eravamo pochi. I lavoratori della provincia di Foggia sono quasi trentamila, divisi tra decine di insediamenti e nazionalità”.

A. raccoglieva arance a Rosarno, ha visto nascere e morire una rivolta. “Non ha funzionato”, dice, “perché non era organizzata da noi, ma dai bianchi”. S. vorrebbe che si muovesse lo stato. Akhet replica: “Uno schiavo non può aspettare che sia il padrone a cambiare la sua vita”.

A pochi metri dalla radio, mentre il sole comincia a dare tregua, decine di braccianti fanno la fila per l’acqua, da trasportare per farsi la doccia fino a una delle cabine di plastica e legno autocostruite (il Gran Ghetto ha solo tre punti di raccolta d’acqua e venti wc chimici).

Tra i ragazzi assiepati attorno al portico, qualcuno alza gli occhi dallo schermo del cellulare. Molti sguardi sono stanchi, altri sono pieni di speranza.

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