11 ottobre 2015 11:23

Una porta con le grate che si apre ogni giorno intorno alle sei del pomeriggio e si chiude alle 9.45 del mattino successivo, sorvegliata da poliziotti. Quattro dormitori con letti a castello illuminati da una luce al neon, arredati con un armadio di ferro blu ogni due persone, dove la luce si spegne alle dieci. Un refettorio con otto grandi tavoli e una televisione al muro. Docce e bagni. Il tutto completato da grossi tubi di aerazione da cui proviene un’arietta fresca che ricorda quella di un obitorio.

Benvenuti sotto terra, nel rifugio della protezione civile (Pc) di Clarens, nel comune di Montreux (nel cantone Vaud), dove dal 1 settembre risiede una cinquantina di giovani africani, in gran parte eritrei, ma anche afgani e somali. Costruito sotto una scuola comunale, questo bunker appartiene allo stato elvetico. È uno dei tanti rifugi antiatomici che all’epoca della guerra fredda spuntavano come funghi e che oggi non servono più a molto. Se non, in alcuni cantoni, a dare alloggio ai profughi.

Ismail, 19 anni, di Hargeisa (la seconda città nel nord della Somalia), ha attraversato il deserto. È stato taglieggiato dai trafficanti in Libia, è quasi morto su una barca nel Mediterraneo, poi si è intrufolato attraverso le frontiere europee.

Voleva raggiungere il fratello in Germania, ma quest’estate si è ritrovato in Svizzera, registrato presso il centro di Chiasso (Canton Ticino), dove ha fatto domanda d’asilo. E adesso ci fa visitare il suo nuovo rifugio: “Ero sorpreso quando ho scoperto che ci avrebbero messi sotto terra. Non ho fatto tutta questa strada per vivere sotto terra”, ripete più volte, mentre nel corridoio comincia la distribuzione del cibo.

La nuova struttura ha destato qualche preoccupazione tra gli abitanti del quartiere e i genitori dei bambini che frequentano la scuola che si trova al di sopra. Si è svolto un incontro informativo. La maggior parte delle persone, molte delle quali di origine straniera, non ha avuto nulla da ridire. A patto che i richiedenti asilo “fossero educati e non sostassero nel cortile della scuola”, spiega un uomo incontrato nei paraggi.

Il bunker di Clarens, che dispone di 76 posti, è l’ultimo di dodici strutture della Protezione civile gestite nel cantone dall’Istituto del cantone Vaud per l’accoglienza dei migranti (Evam). L’Evam, un ente di interesse pubblico, è incaricato dalle autorità cantonali “di dare alloggio, seguire e assistere nelle pratiche i richiedenti asilo, coloro che hanno ricevuto un permesso provvisorio e coloro la cui la domanda d’asilo è stata respinta”, spiega la portavoce Evi Kassimidis.

Come mai si è deciso di alloggiare delle persone sotto terra? “Sei anni fa, la prima struttura della Protezione civile a Nyon era riservata ai cosiddetti dublinati (che dovevano essere rimandati nel primo paese europeo dove erano stati registrati in base alle regole del trattato di Dublino). Adesso invece ci sono solo richiedenti asilo e titolari di permesso provvisorio. Alcuni ci restano per mesi”, osserva criticamente Abdullah Essaidi, responsabile dell’animazione in diversi centri diurni dell’Evam, che entrano in funzione durante il giorno per accogliere i richiedenti asilo ospitati nel sottosuolo. Capita che alcuni si ammalino o cadano in depressione, perdendo la nozione del tempo.

Ad agosto la Svizzera ha ricevuto 3.899 domande d’asilo, due in più rispetto al mese precedente

Sul suo sito, l’Evam precisa che “gli arrivi di persone che fanno richiesta d’asilo in Svizzera proseguono a ritmi sostenuti” e che, di fronte a questo afflusso, tutte le strutture di accoglienza sono “al massimo della loro capacità. Nei centri dell’Evam, gli ambienti comuni sono stati trasformati in dormitori. Di fronte a questa cronica carenza di posti e all’urgenza della situazione, è stato inevitabile ricorrere di nuovo ai rifugi della Protezione civile”, si legge in un comunicato.

Tuttavia, se si tiene conto dei dati, la Svizzera continua a essere una tranquilla isola di pace e di prosperità, per il momento risparmiata dalla crisi dei profughi che sta mettendo a dura prova tutta l’Europa. A metà settembre il contrasto era evidente: da un lato le immagini di decine di migliaia di profughi in cammino sulle strade dell’Europa, soprattutto vittime del conflitto in Siria, dall’altro, le cifre delle richieste d’asilo pubblicate dalla segreteria di stato per le migrazioni (Sem) di Berna.

Ad agosto la Svizzera ha ricevuto 3.899 domande d’asilo (due in più del mese precedente), di cui 1.610 depositate da eritrei, 461 da afgani e 401 da siriani. Nei primi otto mesi del 2015, la cifra complessiva è di 19.668 persone (tra cui 1.425 siriani), mentre gli stati membri dell’Unione europea e dell’Efta (l’Associazione europea di libero scambio) hanno registrato circa 550mila domande tra gennaio e luglio 2015 (nello stesso periodo del 2014 erano state 304mila).

Nel 2014 in Svizzera erano state depositate 23.764 domande d’asilo, 6.923 da eritrei e 3.819 da siriani. La segreteria di stato per le migrazioni sottolinea inoltre come, per il momento, la Svizzera “non sia la destinazione privilegiata dei migranti”, essendo stata “toccata solo in modo marginale dai flussi migratori che attraversano i paesi dell’Europa sudorientale”

Il collettivo No bunkers

Come si spiega questa scarsa pressione per entrare? Stefan Frey, portavoce dell’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati (Osar) ricorda che “nel percorso dei migranti, la diaspora gioca un ruolo molto importante”, e in Svizzera la comunità siriana è poco rilevante.

Ma non è tutto qui. Il sistema di asilo svizzero, che negli ultimi anni ha fatto da calamita – si pensi che durante le guerre nell’ex Jugoslavia nel paese avevano trovato rifugio 83mila persone, tra cui 53mila kosovari – è diventato molto più rigido negli ultimi anni, sotto i colpi dell’Unione democratica di centro, il partito nazionalista populista che ha la maggioranza nel parlamento federale.

Un richiedente asilo eritreo lavora in una falegnameria dell’abbazia territoriale di Einsiedeln nel canton Svitto, in Svizzera, il 15 ottobre 2014. (Fabrice Coffrini, Afp)

Sul totale delle domande esaminate nel 2014, il 26 per cento ha ottenuto il permesso B di rifugiato, il 27 per cento è stato ritenuto privo dei requisiti per essere preso in esame e il 46 per cento è stato respinto. In questi ultimi casi, o le autorità ritengono che la persona in questione debba essere rimandata nel suo paese di origine, e la sua domanda sarà respinta in via definitiva, oppure è accordato un permesso provvisorio (di tipo F), nel caso in cui il rinvio nel paese di origine sia impossibile per la presenza di guerre o situazioni di pericolo.

È proprio questo il punto debole dei siriani in Svizzera: più del 58 per cento riceve un permesso provvisorio e solo il 35 per cento ottiene lo status di rifugiato, contro una media del 70 per cento negli altri paesi europei. A questo si aggiungono tempi d’attesa spesso di diversi mesi. In una recente intervista al settimanale Neue Zurcher Zeitung am Sonntag, la responsabile dell’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, Anja Klug, ha sottolineato che la Svizzera “applica una politica troppo restrittiva nei confronti dei richiedenti asilo siriani. Poiché ricevono un permesso di soggiorno solo temporaneo, devono fare i conti con il rischio di essere espulsi da un momento all’altro”, ricorda.

Di sicuro il sistema elvetico ha il vantaggio di essere rodato, in modo quasi militare. Una volta passati da uno dei cinque centri federali dove sono registrati e depositano le loro domande d’asilo (Vallorbe, Bâle, Altstätten, Kreuzlingen e Chiasso), i richiedenti asilo vengono presi per mano, distribuiti nei 26 cantoni secondo percentuali calcolate in base al numero di abitanti. Zurigo ne accoglie il 17 per cento, Berna il 13,5 per cento, il Canton Vaud l’8 per cento, il Canton Arguiva il 7,7 per cento, il San Gallo il 6 per cento, Ginevra il 5,6 per cento, eccetera.

Il tasso di inattività dei rifugiati tra i 18 e i 65 anni è del 20 per cento nei primi cinque anni di permanenza in Svizzera

I cantoni devono a quel punto fornire un alloggio, un sussidio economico, un’assicurazione sanitaria, corsi di lingua e un’assistenza per trovare lavoro. Secondo i dati pubblicati di recente dal quotidiano Le Temps, tutto questo ha in media un costo di 1.200 franchi svizzeri (circa 1.100 euro) per persona ogni mese. Chi è respinto, può comunque beneficiare di un aiuto d’urgenza minimo per un po’ di tempo.

Nella realtà però il sistema presenta diverse falle. Trovare un lavoro è difficilissimo. Il tasso di inattività dei rifugiati tra i 18 e i 65 anni è del 20 per cento nei primi cinque anni di permanenza in Svizzera e del 48 per cento dopo dieci anni. Solo un quarto di chi è ammesso in via provvisoria lavora dopo questo stesso lasso di tempo.

Per quanto riguarda l’alloggio esistono enormi disparità. Se il cantone Vaud non esita a ospitare le persone sotto terra, Ginevra ha visto quest’estate una piccola rivoluzione. Il collettivo No Bunkers, che protestava contro il trasferimento nei rifugi gestiti dalla Protezione civile di ottanta profughi ai quali era stata respinta la domanda d’asilo, ha occupato per quasi due mesi la Casa delle arti del Grütli, e poi una struttura per spettacoli di Ginevra.

Con il sostegno del comune, hanno convinto il cantone a dare il permesso di sistemare i profughi in un edificio vuoto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’aiuto allo sviluppo. I rifugi della Protezione civile in cui dormono ancora circa 250 persone dovranno chiudere nel 2016. Alcuni sono di una sporcizia rivoltante, senza ventilazione e pieni di cimici.

Nel cantone Argovia sono state approntate delle tende militari per ospitare i richiedenti asilo, in questo caso solo uomini, per un periodo massimo di 110 giorni. Questo provvedimento ha fatto indignare la sinistra. Secondo Stefan Frey, portavoce dell’Osar, è una soluzione provvisoria, preferibile al “parcheggiare degli esseri umani nei rifugi della Protezione civile senza ventilazione, come talpe sotto terra”.

Per Abdellah Essaidi, dell’Evam, non c’è da stupirsi se i profughi preferiscono evitare la Svizzera. “Chi scappa dal proprio paese parla molto al telefono e su Facebook. È informato sulle condizioni di accoglienza qui. Un siriano che chiama dalla Turchia suo cugino, che vive in Svizzera e che gli racconta di essere da più di tre anni in attesa di una risposta, mentre un altro cugino in Germania gli dice di aver appena ottenuto l’asilo, fa presto a scegliere”, spiega, precisando che al momento è in corso una revisione del sistema d’asilo in Svizzera con l’obiettivo di chiudere il 60 per cento delle procedure in 140 giorni.

Al contrario, spiega, “dal 2013 il paese attira tanti giovani eritrei”, che scappano dalla dittatura di Afewerki e dall’obbligo del servizio militare che dura diversi anni ed è pagato una miseria. Nel 2014, circa l’85 per cento dei richiedenti asilo eritrei ha ricevuto una forma di protezione (permessi B o F), ingrossando le file di una diaspora sempre più consistente. Questa tendenza è proseguita nel 2015, come rileva la segreteria di stato per le migrazioni in una nota in cui si precisa che “la maggioranza di questi richiedenti asilo viene nel nostro paese per scappare dalla miseria e perché ha bisogno della nostra protezione”.

La famiglia Khatibi in attesa di un permesso

Per incontrare dei siriani bisogna andare al centro di Crissier, una delle strutture dell’Evam, a ovest di Losanna: tre edifici in mezzo alla foresta in prossimità dell’anello autostradale. I locali sono piacevoli e molti bambini giocano nel cortile. Qui sono alloggiati circa 350 rifugiati in nuclei familiari, e tra loro i siriani sono una ventina.

Originari della città costiera di Tartus, i Khatib sono arrivati qui passando per Beirut nel luglio del 2014: sono due genitori, due figli di 16 e 17 anni e due figlie di 19 e 22 anni. Il primogenito rischiava di essere arruolato nell’esercito. Il più giovane era stato arrestato dalla polizia a causa di una scritta su un muro. Hanno dovuto lasciarsi tutto alle spalle: i parenti, una casa e un’impresa di taxi. La famiglia ha raggiunto due zii materni che avevano ottenuto l’asilo nel 2012 e oggi vivono a Ginevra e a Montreux.

Ben presto le speranze dei nuovi arrivati si sono sgonfiate. In attesa di un alloggio vicino a Yverdon, i Khatib continuano a vivere in un minuscolo monolocale con due letti a castello e tre materassi per terra. Qualche settimana fa è giunta una cattiva notizia: hanno ottenuto un permesso provvisorio per restare in Svizzera, ma “la guerra non si fermerà”, come sottolinea la figlia maggiore Fatima. Pallida, dichiara di non capire questa decisione, e si chiede “perché il resto della famiglia, i nostri zii, le loro mogli, i loro figli, i miei nonni, hanno ottenuto un permesso B e noi un permesso F”. Hanno fatto ricorso. La giovane vorrebbe poter raggiungere il marito che vive in Germania, a Kemnitz, ma ha dovuto consegnare tutti i suoi documenti a Berna.

Un richiedente asilo eritreo nell’abbazia territoriale di Einsiedeln nel canton Svitto, in Svizzera, il 15 ottobre 2014. (Fabrice Coffrini, Afp)

La Svizzera tuttavia afferma di aver già fatto tanto per accogliere le vittime del conflitto siriano. Il 18 settembre, mentre l’Unione europea si spaccava ancora una volta sul ricollocamento di 120mila profughi, il consiglio federale ha convocato i giornalisti per annunciare la sua “partecipazione” al primo programma di ripartizione adottato a luglio dall’Unione europea, quello basato su 40mila profughi.

Berna si impegna a farsi carico nell’arco di due anni di 1.500 persone tra quelle che sono state già registrate in Italia o in Grecia. Questo gesto però sembra una presa in giro, dal momento che “il numero di persone ammesse a questo titolo sarà sottratto dal contingente di tremila persone da proteggere la cui accoglienza era stata deliberata dal consiglio federale nel marzo del 2015”, come precisa il comunicato stampa. Stefan Frey, portavoce dell’Osar, l’ha definita “una pagliacciata”.

Lo scorso mese di marzo le autorità elvetiche avevano accettato di offrire duemila posti in due anni nell’ambito di un programma di reinsediamento, in collaborazione con l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Si tratta di individuare nei paesi più vicini al conflitto i profughi siriani più vulnerabili (vittime di torture, donne sole, malati, eccetera) e di offrirgli lo status di rifugiati prima ancora di farli arrivare in Svizzera.

A pochi giorni dalle elezioni legislative federali del 18 ottobre, la questione dei profughi divide la classe politica

Berna si è inoltre impegnata ad accordare, a partire da quest’anno, mille visti umanitari per facilitare i ricongiungimenti familiari. Sono arrivate meno di 500 persone. Questo programma, presentato come “azione umanitaria”, è stato amputato dei 1.500 posti destinati ai siriani già arrivati in Europa. E pazienza per i profughi “più vulnerabili”.

L’addetto stampa della segreteria di stato per le migrazioni, Martin Reichlin, si difende facendo notare che dal 2011 il paese ha accordato la protezione a novemila siriani, mettendo assieme chi ha ottenuto un permesso di asilo e chi ha solo un permesso provvisorio. Dal canto suo, la ministra Simonetta Sommaruga si è dichiarata pronta a partecipare al secondo piano di ripartizione (120mila profughi) che alla fine è stato adottato a Bruxelles con una votazione il 22 settembre. Secondo questo programma di ripartizione, in Svizzera dovrebbero essere destinati altri 4.500 profughi. Ancora però non è stato fatto nessun annuncio ufficiale.

A pochi giorni dalle elezioni legislative federali del 18 ottobre la questione dei profughi divide la classe politica. La sinistra, a cui danno manforte numerose organizzazioni non governative, condanna la risposta “fin troppo timida” di Berna a una crisi migratoria globale. “Un totale di tremila profughi rappresenta una cifra ormai superata dai drammatici eventi di queste ultime settimane”, dichiara il Partito socialista. Per la destra borghese fare di più è fuori discussione.

Per il Partito liberale radicale (Plr), “i richiedenti asilo provenienti dalla Siria che sono accolti in Svizzera devono beneficiare della protezione provvisoria per poter tornare subito nel loro paese non appena la situazione si sarà stabilizzata”.

Il partito pretende “valutazioni individuali” per i profughi ammessi, per “evitare che nelle quote si infiltrino dei terroristi”. In testa ai sondaggi con il 29 per cento delle intenzioni di voto, i nazionalisti populisti dell’Unione democratica di centro (Udc) manifestano il loro sdegno per il fatto di dover partecipare ai programmi di ripartizione dei profughi dell’Ue e richiedono la reintroduzione immediata dei controlli alle frontiere.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato su Mediapart all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel, BabelMed, Osservatorio Balcani e Caucaso, Migreurop, Resf, Centro Primo Levi, La cimade, Médicins du monde.

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