18 dicembre 2015 15:08

Un tesoro di arte contemporanea, rimasto nascosto per quasi quarant’anni, torna alla luce. La notizia viene dall’Iran, e il “tesoro” è la collezione custodita nei sotterranei nel museo di arte contemporanea di Teheran (Tmcoa).

È una collezione famosa, quasi favoleggiata. Fu messa insieme negli anni settanta quando sull’Iran imperversava lo scià, il petrolio riempiva le casse dello stato e la sovrana Farah Diba, appassionata d’arte, poteva permettersi una generosa politica di acquisizioni. Comprava di tutto, artisti affermati e quella che allora era un’avanguardia emergente: da Pablo Picasso, Claude Monet, Paul Gauguin o Van Gogh, a Edvard Munch, Joan Mirò e Salvador Dalí, a Jackson Pollock, Mark Rothko, Alberto Giacometti, fino alla pop art di Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein o Andy Warhol – oltre, ovviamente, ad alcuni artisti iraniani dell’epoca, che del resto erano molto legati a quanto avveniva nella scena artistica occidentale.

Insomma: una collezione di valore artistico inestimabile (per non parlare di quello strettamente commerciale). Il museo stesso, nel bel parco Laleh, oasi di verde pubblico nel centro di Teheran, è una testimonianza di quell’epoca: edificio modernista, fu disegnato dall’architetto Kamran Diba (cugino della sovrana) con diverse gallerie attorno a un corpo centrale a spirale che ricorda vagamente il Guggenheim newyorkese – salvo che qui la spirale scende, le gallerie sono sotto il livello della strada.

La novità dunque è che parte di quella collezione sarà esposta a Roma, grazie a un accordo firmato giorni fa nella capitale iraniana tra la presidente del Maxxi (Museo d’arte del XXI secolo) Giovanna Melandri e il suo collega, il direttore del Tmoca di Tehran.

La collezione non subì danni con la rivoluzione islamica. Fu semplicemente impacchettata e messa nei sotterranei

Sarà un’occasione rara. Infatti quelle opere hanno visto ben poca luce dopo il 1979, quando la rivoluzione islamica ha cambiato il corso della storia in Iran. Per i rivoluzionari di allora quelle opere erano esempi della penetrazione culturale dell’occidente, testimonianze di decadenza e corruzione morale, oltre che del lusso ostentato dalla corte dello scià.

Il museo d’arte contemporanea, inaugurato nel 1977 – cioè appena due anni prima della fuga dello scià – fu trasformato in memoriale dei martiri della rivoluzione: i diseredati, il martirio, il popolo, era quello il linguaggio della rivoluzione. La collezione però non subì danni (solo un ritratto di Farah Diba dipinto da Warhol è stato tagliato, ma molti anni dopo, gesto individuale di un estremista). Fu semplicemente impacchettata e messa nei sotterranei, e là è rimasta anche quando il museo è tornato alla sua funzione originaria: la collezione che ora possiamo chiamare “storica” è sempre rimasta ben protetta e custodita, ma chiusa al pubblico.

Ci sono state solo due eccezioni, due esposizioni temporanee. La prima nel 1999, durante l’amministrazione di Mohammad Khatami, il presidente riformista che aveva introdotto un clima di aperture sociali e culturali nel paese; la seconda è avvenuta durante l’amministrazione Ahmadinejad, a dimostrare che alcuni di quegli spazi ormai erano aperti in modo irrevocabile.

E forse anche che la repubblica islamica stava cominciando a rivalutare il suo tesoro, benché con un certo impaccio: la scelta delle opere da mostrare al pubblico deve sempre rispettare certe linee guida, per esempio escludere il corpo nudo o immagini “immorali” (un bel documentario di Bahman Kiarostami, The treasure cave, racconta la storia di quel tesoro nei sotterranei, dei suoi curatori, e della prima volta che i dirigenti del museo hanno ottenuto il permesso di mostrarlo ai cittadini di Tehran).

Il ‘tesoro’ di Teheran comincerà a viaggiare. Secondo l’accordo appena firmato, tra circa un anno il Maxxi di Roma ne esporrà una selezione

Va detto che alcune opere di quella collezione “storica” hanno già trovato spazio nelle gallerie aperte al pubblico. Chi entra oggi nel museo di arte contemporanea di Teheran trova per esempio una retrospettiva della pittrice iraniana Farideh Lashai, una straordinaria figura di artista che ha attraversato la scena artistica dagli anni sessanta fino alla sua scomparsa nel 2013: dai primi dipinti, ai cristalli disegnati per i Rosenthal in Austria, alle copertine disegnate per le sue traduzioni di Bertolt Brecht – fino alle opere più mature e recentissime installazioni. Sul percorso, i curatori hanno voluto esporre alcune delle opere che hanno influenzato il lavoro di Lashai: così, ecco qualche Monet, Pissarro,Toulouse-Lautrec, un Rothko, un Giacometti, un Pollock, riesumati dai sotterranei.

Presto altre opere seguiranno, e il “tesoro” di Teheran comincerà a viaggiare. Secondo l’accordo appena firmato, tra circa un anno il Maxxi ne esporrà una selezione, a cui il curatore Bartolomeo Pietromarchi affiancherà una trentina di opere di artisti iraniani contemporanei (il progetto è in collaborazione con la Neue national galerie di Berlino).

“La collezione ‘storica’ di Teheran è testimonianza di una scena artistica che si stava costruendo”, osserva Giovanna Melandri, appena tornata da Teheran. “Era l’avanguardia di allora, e vogliamo intrecciarla alla produzione degli artisti iraniani coevi”. Spiega che i contatti del Maxxi con il museo d’arte contemporanea di Teheran risalgono all’anno scorso, quando l’istituzione italiana aveva ospitato il progetto Unedited history, mezzo secolo di produzione culturale iraniana. Una mostra da cui emergeva chiaramente come la rivoluzione sia stata una rottura, certo, anche nella scena artistica, e che però non ha messo fine al cammino della modernità in Iran: proprio in esposizioni come quella di Lashai è visibile come accanto alle rotture ci siano anche elementi di continuità, in un paese che non ha smesso di amare le arti.

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