31 gennaio 2020 10:28

“Qui ci trattano come animali, anzi gli animali li trattano meglio”. Mariam (nome di fantasia per proteggerne l’identità) ha trent’anni e un figlio piccolo e grassottello che gioca sul tappeto di una minuscola stanza dove la donna, originaria di Damasco, vive con la sua famiglia al piano terra di un edificio di Verdun, un quartiere lussuoso di Beirut. Il marito, Ahmad (nome di fantasia), 31 anni, originario della Ghouta, è stato torturato nelle carceri di Bashar al Assad, perché proviene da una delle aree considerate un covo delle forze antigovernative nella periferia di Damasco. Ora fa il portiere nella capitale libanese per 500mila lire libanesi al mese (circa 300 euro).

Non ha partecipato direttamente alla rivoluzione del 2011, ma nonostante questo è stato incarcerato per venti giorni nell’aeroporto militare di Damasco, è stato appeso per i polsi e torturato. “Non volevano sapere nulla in particolare, era una punizione e allo stesso tempo un avvertimento”, racconta. Dopo quell’episodio ha deciso di lasciare il paese e si è rifugiato in Libano. “Tutti i ragazzi della mia zona sono stati massacrati o sono spariti, ho perso mio cugino, il mio miglior amico. A mio figlio ho voluto dare il suo nome. In Siria c’è un regime di terrore”.

Parlare di quello che ha vissuto nel suo paese è ancora traumatico per l’uomo che è tra i beneficiari del nuovo corridoio umanitario dal Libano, il venticinquesimo, che porterà in Italia 86 persone il 31 gennaio, organizzato dalla Federazione delle chiese evangeliche (Fcei), dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio. “Mi vengono i brividi ogni volta che incrocio lo sguardo di un poliziotto, ogni volta che mi ricordo quei momenti”, Ahmad è seduto per terra, in una piccola stanza, che è la casa in cui vive con sua moglie e suo figlio nel palazzo in cui fa il portiere a Beirut, ogni tanto squilla il citofono e deve alzarsi ad aprire e controllare il cancello d’ingresso.

Beirut, Libano, 28 gennaio 2020. (Annalisa Camilli)

La sua condizione abitativa e lavorativa è un’immagine efficace della situazione dei profughi siriani in Libano, almeno un milione e mezzo di persone (ma secondo alcune stime molte di più) che fanno fatica a sopravvivere in un paese che ospita il più alto numero di profughi pro capite al mondo, ma allo stesso tempo non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e non garantisce alcuna forma di assistenza a questa categorie di persone.

Secondo un rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il 75 per cento dei siriani in Libano vive sotto la soglia di povertà e fa fatica a pagare un affitto o ad accedere ai servizi di base come la sanità che è a pagamento. Per legge, i profughi possono svolgere solo un certo tipo di lavori, quelli meno qualificati. La crisi economica che sta scuotendo il Libano, la peggiore dalla fine della guerra civile nel 1990, e che ha avuto come conseguenza restrizioni importanti sui prelievi bancari e una riduzione della liquidità in circolazione, ha peggiorato la condizione dei più deboli e ha alimentato un clima di odio verso gli stranieri nel paese.

Senza cure
La stanza di pochi metri quadrati al primo piano è tutto il mondo del portiere siriano e di sua moglie, di giorno è un salotto dove il bambino gioca sui cuscini stesi a terra, di notte diventa una stanza da letto. Ahmad ha decorato le pareti con della carta da parati e con dei disegni, ma l’appartamento è molto angusto e umido e ha una sola piccola finestra che affaccia sul parcheggio. “Abbiamo chiesto di poter mettere un impianto di areazione, perché il bambino ha l’asma”, racconta la donna. Ma il condominio glielo ha impedito. Dal salario mensile di Ahmad sono scalati i soldi che il condominio versa al governo libanese per pagare il suo permesso di soggiorno.

“C’è un gatto nel cortile del palazzo, i condomini gli portano da mangiare, ci giocano, mentre a noi ci ignorano, nemmeno ci salutano, ci sentiamo trasparenti”, racconta la ragazza che ha studiato economia all’università di Damasco, ha lavorato in banca, poi come insegnante di matematica e informatica in una scuola privata siriana. “Speravo di poter lavorare anche in Libano. Anche solo dare lezioni mi sarebbe piaciuto, perché lavorare mi rende felice”, racconta.

Ma una volta arrivata in Libano per raggiungere il suo compagno, che ha sposato nel 2018 dopo tre anni di fidanzamento a distanza, è rimasta a casa senza lavoro e con un figlio piccolo. “Nonostante i libanesi siano molto colti, molto educati, ci trattano male: vivere qui è una continua umiliazione”, conclude. “Non mi hai ancora chiesto perché sono felice di venire in Italia”, irrompe Ahmad mentre sorseggia un succo di melograno molto zuccherato. “Perché vorrei che mio figlio crescesse da uomo libero in un paese sicuro. Sono disposto a fare qualsiasi lavoro e sacrificio per permettere questo”.

Campagna di odio
La situazione dei profughi siriani in Libano è sempre stata difficile, discriminazioni e norme restrittive per ottenere il permesso di soggiorno ci sono state sempre, ma negli ultimi mesi i siriani sembrano vittime di una vera e propria campagna di odio nel paese, alimentata anche da alcuni politici locali come l’ex ministro degli esteri Gebran Bassil che ha rilasciato numerose dichiarazioni e tweet contro i profughi: per esempio, durante una conferenza a Ginevra ha accusato i siriani di essere la causa della crisi economica del paese mediorientale, ha chiesto aiuto internazionale per rimandare i profughi nel loro paese di origine, ha chiesto di approvare una legge che impedisca alle donne libanesi di trasmettere la cittadinanza ai figli, se sposano un palestinese o un siriano.

Ali Khoja, un turkmeno di Aleppo, ha sempre lavorato tra la Siria e il Libano, anche prima che scoppiasse la guerra nel suo paese, trasportava acqua potabile tra i due paesi. Ma a causa della guerra, l’uomo è rimasto bloccato in Siria, intrappolato insieme alla sua famiglia nei combattimenti tra ribelli ed esercito governativo. “Mangiavamo solo una volta al giorno, andavamo a fare la fila per prendere il pane, facevamo la fila per ore davanti ai forni. I bombardamenti erano continui”, Khoja, 45 anni, padre di quattro figli, racconta l’assedio da parte dell’esercito di Assad del quartiere al Ashrafieh, ad Aleppo.

La famiglia Khoja a Nabaa, Beirut, 28 gennaio 2020. (Annalisa Camilli)

“Appena abbiamo capito che la situazione si era un po’ calmata e potevamo scappare attraverso un checkpoint, abbiamo preso i nostri tre figli e ce ne siamo andati, non abbiamo preso nulla delle nostre cose”, ricorda. “Non so nemmeno come abbiamo fatto a uscire da Aleppo e a lasciare la Siria, la paura era tanta, abbiamo dovuto attraversare diversi punti in cui erano appostati dei cecchini, mia moglie andava avanti con i bambini. Abbiamo pensato di morire, ma invece ce l’abbiamo fatta”, ricorda.

Ma una volta arrivati in Libano i problemi non sono finiti: la moglie Fadia ha scoperto di avere una grave insufficienza renale, che le ha provocato dei problemi di salute e dei danni irreversibili. Al momento la donna, dopo due operazioni, è costretta a ricorrere alla dialisi tre volte alla settimana. “Abbiamo venduto tutto l’oro che avevamo per farla curare, in Libano gli ospedali e le cure costano”, racconta Khoja, che lavora qualche giornata al mese come operaio o come trasportatore e non si può permettere nemmeno l’affitto di una casa. Per l’uomo la priorità è portare sua moglie in Europa per farla curare, ma anche assicurare una formazione dignitosa ai suoi figli: “In Libano i siriani frequentano delle scuole di serie B, vanno a scuola il pomeriggio e la mattina fanno dei doposcuola con le organizzazioni umanitarie, ma il livello dell’istruzione è molto basso”.

Migrare è sempre una ferita
Prima di affrontare il viaggio verso l’Italia i profughi si radunano nel centro di Beirut, per cenare insieme e salutare i parenti che non potranno vedere per molto tempo. Sono passati quasi quattro anni dal primo corridoio umanitario che il 4 febbraio 2016 permise alle prime famiglie siriane di arrivare in Italia in aereo, senza rischiare la vita affidandosi ai trafficanti di esseri umani. Da allora sono partiti più di trenta voli che hanno portato in Italia 1.895 persone da Beirut, soprattutto siriani di Aleppo, Homs, Idlib, Damasco. “L’idea dei corridoi umanitari ci è venuta a Lampedusa, dopo il naufragio del 3 ottobre del 2013”, ricostruisce Maria Quinto, responsabile dei corridoi dal Libano della Comunità di sant’Egidio. “Quelle persone avevano il diritto di chiedere l’asilo nei nostri paesi, perché fuggivano da guerre e persecuzioni, ci sembrava scandaloso che fossero morte, per chiedere quello che era un loro diritto”.

In particolare nel naufragio del 2013, in cui morirono 368 persone, i volontari di sant’Egidio incontrarono molti familiari delle vittime che erano in Europa da molti anni e avevano provato in tutti i modi a chiedere il visto per i loro congiunti, senza riuscire a ottenerlo. “Fu allora che studiammo la possibilità dei visti con validità territoriale limitata”, un’opzione prevista dai regolamenti europei. “Nel 2014 sono arrivati in Italia più di 40mila siriani via mare”, ricorda Daniela Pompei, responsabile immigrazione della Comunità di sant’Egidio.

“Durante l’estate del 2014 ci siamo messi a studiare i regolamenti europei per capire se ci fosse stato un sistema per fare entrare regolarmente le persone, nel settembre del 2014 eravamo pronti con una proposta per le autorità italiane: avevamo trovato nel Regolamento visti l’articolo 25 che prevedeva la possibilità per gli stati di concedere un visto umanitario temporaneo”, ricostruisce Pompei, che poi ha trovato un’intesa anche con i Valdesi e con le chiese evangeliche su questa proposta. Inizialmente le associazioni chiedevano un visto per duemila persone. “Dopo un anno di trattativa abbiamo sottoscritto il primo protocollo nel dicembre del 2015. Ci dicevano che non era possibile e invece ce l’abbiamo fatta”.

Da allora quasi tremila persone sono arrivate in Europa in questa maniera, sono stati attivati dei corridoi umanitari anche dall’Etiopia gestiti dalla Comunità episcopale italiana (Cei) e dalla Caritas e sono stati aperti dei canali anche verso la Francia, il Belgio e Andorra.

Le associazioni attraverso contatti diretti con le famiglie e segnalazioni fornite da ong e organismi internazionali, predispongono una lista di potenziali beneficiari, che sono trasmesse alle autorità italiane, che a loro volta valutano la richiesta e alla fine emettono dei visti umanitari, che permettono ai richiedenti asilo di arrivare in Europa, dove poi fanno richiesta di protezione internazionale.

Il progetto è completamente a carico delle organizzazioni che lo promuovono, che si occupano anche di finanziare l’accoglienza dei profughi. Sono coinvolte 19 regioni nell’accoglienza, moltissimi comuni. Per Federica Brizi di Mediterranean Hope, il successo dell’inclusione è determinato dal modello diffuso dell’accoglienza: “Queste persone sono accolte non in grandi edifici, non in grandi concentrazioni, ma in piccole comunità e sono seguite per l’apprendimento della lingua e per l’inserimento lavorativo”. Questo determina un’inclusione che è molto più rapida. Dopo un anno e mezzo chi è arrivato con i corridoi umanitari è autonomo, ha più facilità a trovare lavoro e ad affittare o a comprare una casa, soprattutto nei piccoli centri perché spesso è aiutato e seguito da chi si è fatto carico dell’accoglienza.

Per Halima Tanjoui, operatrice di Mediterranean Hope in Libano, “la parte più difficile è l’individuazione dei casi vulnerabili, perché vista la situazione dei profughi siriani in Libano abbiamo molte segnalazioni”. La guerra in Siria va avanti da otto anni, le persone hanno subìto violenze di ogni tipo: bombardamenti, privazioni, alcuni sono stati in carcere, altri sono stati torturati. “Facciamo delle interviste molto approfondite e studiamo i casi per almeno un anno”, spiega Tanjoui, che è un’italiana di origine marocchina, arrivata in Italia a dieci anni per seguire il padre che era emigrato qualche anno prima.

“Il mio vissuto mi aiuta molto nella mia esperienza di operatrice, cerco di fare da ponte, conosco la realtà del Libano, parlo arabo, sono musulmana, ho vissuto un’esperienza di migrazione nella mia famiglia. So che ogni migrazione è una ferita, ogni migrazione lascia dei segni”, spiega Tanjoui. Un’altra difficoltà è la preparazione delle persone al viaggio e al trasferimento. “Hanno aspettative molto alte e nessuna idea di come sia realmente l’Europa, per questo cerchiamo di prepararli alle difficoltà che incontreranno”, spiega l’operatrice. “Nel caso di malattia questo può influire molto sull’inclusione e le persone vanno preparate alle difficoltà che possono incontrare. Il lavoro è un’altra difficoltà”, spiega Brizi. L’unica cosa sicura, per chi lavora al progetto, è che duemila visti in quattro anni sono pochi, rispetto alla richiesta e rispetto a quello che potrebbero fare i governi europei. “Servirebbero almeno cinquemila visti dal Libano, data la situazione”, conclude Tanjoui.

Per Daniela Pompei i governi europei dovrebbero partire dall’esperienza dei corridoi umanitari per estendere le vie legali d’ingresso in Europa, prevedendo una parte attiva della società civile. “Bisognerebbe pensare a uno strumento giuridico che preveda l’ingresso per motivi umanitari, con l’aiuto anche di sponsorship private”. Spesso infatti sono le stesse famiglie che si trovano già in Europa a voler pagare il viaggio e l’accoglienza dei rifugiati, ma per ora non possono farlo.

Fadia e Ali Khoja con i loro tre figli sono arrivati a Roma, il 31 gennaio. E hanno trovato ad aspettarli dei volontari che li porteranno a Ivrea, dove cominceranno la loro vita. Molti degli interpreti che li hanno accolti all’aeroporto di Fiumicino erano profughi siriani, arrivati con il primo corridoio umanitario, quattro anni fa.

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