18 novembre 2020 14:16

“In pochi mesi d’estate, la Bielorussia ha completamente riscritto il suo ruolo nel mondo. Diventandone parte integrante. La posta in gioco va ben oltre la questione di chi possieda formalmente la sovranità. Al centro ci sono il nostro stile e la nostra collocazione”. Ihar Babkoŭ, 30 agosto 2020.

In uno sforzo storico e senza precedenti di politicizzazione collettiva, la popolazione bielorussa ha vinto la paura e l’apatia su cui il regime autoritario aveva prosperato negli ultimi due decenni. I bielorussi vogliono liberarsi delle catene dell’autoritarismo e diventare cittadini, non sudditi: cittadini pienamente padroni del loro destino. Questo ha sorpreso non solo gli osservatori internazionali ma, più di tutti, gli stessi bielorussi.

In contrasto con le manifestazioni del 2006 e del 2010, le proteste hanno avuto luogo non solo nella capitale, ma anche in altre città e perfino in villaggi e cittadine di provincia, luoghi in passato considerati roccaforti del presidente Aleksandr Lukašenko. Qui la disoccupazione, la corruzione e la mancanza di prospettive hanno alimentato il malcontento. I manifestanti appartengono a tutti i gruppi sociali e a tutte le fasce d’età: a studenti, informatici, artisti e sportivi si sono uniti medici, insegnanti, pensionati e lavoratori delle aziende di stato. Insieme alle donne, sono i giovani il volto delle proteste. Istruita ma senza un futuro, la “generazione Lukašenko” era generalmente ritenuta passiva e apatica. Ma, per chi fosse disposto a osservare con più attenzione, i segni erano già tutti visibili.

La cultura e le proteste
Nel 1994 Aleksandr Lukašenko, che allora aveva 39 anni, fece campagna elettorale promettendo che avrebbe condotto il paese fuori dalla crisi economica e politica. Da presidente, perseguì l’obiettivo indirizzando la politica e l’economia verso un modello neosovietico e governando con metodi autoritari. Fu una specie di patto con i cittadini: salari e cibo in cambio delle libertà ottenute dal paese nel 1991. Questo gli valse il sostegno di ampie fasce della popolazione, che dal crollo dell’Unione Sovietica non avevano tratto benefici. Ma reintroducendo i simboli della Repubblica socialista sovietica della Bielorussia, imponendo nuovamente il russo come lingua ufficiale (attraverso un controverso referendum nel 1995), e sottraendo potere al parlamento nel 1996, Lukašenko si mise contro i bielorussi che consideravano positive le libertà conquistate nel 1991. Tra questi c’erano giornalisti, artisti e intellettuali, ma soprattutto i ragazze e le ragazze cresciuti durante gli anni della perestrojka e della glasnost. Il complesso rock Ulis aveva dato voce alle loro aspirazioni nel 1990 con la canzone Radio Svaboda (Radio Libertà): “Desideriamo ardentemente che il nostro cuore bruci. Questa è Radio Libertà. Dove non c’è oscurità. Il nostro elemento. Con la bandiera bianca che sventola su di noi”.

Alla fine degli anni ottanta molti giovani musicisti, tra cui il fondatore degli Ulis, Slava Koran, cominciarono a scrivere testi in bielorusso. Era una novità. Era un modo per esprimere non solo il loro desiderio di libertà, ma anche l’orgoglio per la cultura bielorussa, che in Unione Sovietica era stata marginalizzata e soffocata. Il gruppo di hard rock Mroja (Sogno) fece uscire il primo disco rock in bielorusso per l’etichetta discografica sovietica Melodija. Il gruppo fu creato nel 1981 da Lavon Volski, oggi un’icona della cultura della contestazione in Bielorussia. Nel 1995 Volski entrò a far parte della stazione radio FM 101.2, che acquisì rapidamente uno status di culto tra i giovani bielorussi grazie alle sue trasmissioni provocatrici e ironiche e per le sue scalette musicali alternative, composte principalmente da musica bielorussa. Anche se FM 101.2 fu chiusa dal regime nel 1996, la creatività che aveva alimentato e le reti di contatti che aveva contribuito a sviluppare avrebbero definito la cultura alternativa in Bielorussia nei successivi vent’anni. Una volta lasciato il paese, alcuni dei suoi fondatori diedero vita alla stazione Euroradio a Varsavia.

Il gruppo N.R.M. – sigla che sta per Nezaležnaja Rėspublika Mroja: Repubblica indipendente dei sogni – diventò presto l’alfiere della cultura giovanile non conformista e della resistenza alle ambizioni autoritarie di Lukašenko. Anche in questo caso il cantante e fondatore era Volski, il cui stile lirico e caustico esprimeva bene i desideri dei giovani, riuscendo a parlare a un pubblico molto ampio. N.R.M. riuscì a rendere popolare la lingua bielorussa e diede il suo nome a un’intera generazione. I concerti di gruppi come N.R.M., Nejro Djubel, Deviation, Palac, Ulis, Zet, Krama e Novae Neba divennero occasioni di ritrovo per i ragazzi e le ragazze che rifiutavano la risovietizzazione del paese. La lingua bielorussa diventò un codice culturale alternativo che ispirava forme di espressione che andavano oltre la musica rock.

Oltre il rock
Queste “nicchie di libertà” erano considerate una minaccia dal regime, e dalla fine degli anni novanta cominciarono a essere prese di mira. I concerti furono vietati, certi gruppi e musicisti vennero banditi dalla radio e dalla tv di stato, e i locali furono costretti a chiudere. La rivista studentesca Studumka, portavoce della creatività della scena, fu vietata nel 2005.

Tra i protagonisti di questo universo culturale e politico ci furono anche Sjarhei Michalok e il suo gruppo Lapis Trubetskoj, molto popolari in tutto lo spazio postsovietico per la loro miscela di pop demenziale e ska-punk ironico. L’album Manifest (2006) segnò il passaggio di Michalok all’agitpop, un genere perfezionato dalla band in canzoni come Graj, inno dei manifestanti durante la mobilitazione che seguì le elezioni presidenziali del 2010. Michalok fondò poi il gruppo Brutto, diventato famoso durante le manifestazioni di Euromaidan in Ucraina. A causa delle critiche all’autoritarismo del regime di Lukašenko, per un periodo i Brutto non si sono potuti esibire in Bielorussia.

Molti dei gruppi e dei musicisti che avevano fatto parte del movimento di protesta a partire dagli anni novanta si sono spesso esibiti durante le mobilitazioni dell’opposizione, come le proteste dopo le elezioni presidenziali del 2006, note come la “rivoluzione dei jeans”. I manifestanti, soprattutto giovani, allestirono una tendopoli in piazza dell’Ottobre, a Minsk, che fu sgomberata dopo cinque giorni. Quelle proteste furono raccontate dal regista Jurij Chaščavacki nel suo film Kalinovski Square (Plošča). Già allora si poteva sentire lo slogan “Verym! Моžam! Peramožam!” (“Ci crediamo! Possiamo farcela! Vinceremo”), spesso scandito anche nelle proteste del 2020.

I componenti del gruppo Brutto durante un concerto a Londra, Regno Unito, ottobre 2015. (David M. Benett, Getty Images)

Le spontanee manifestazioni di solidarietà che stanno caratterizzando le proteste attuali potevano già essere osservate nel 2006. Gli abitanti fornivano ai manifestanti della tendopoli cibo e bevande calde per proteggerli dal freddo. Organizzazioni giovanili come i nazionalisti di Malady Front (Fronte dei giovani) e Zubr (Bisonte) usavano dei flash mob per reclamare libertà di parola. Per molti anni le persone si sono riunite nelle piazze del centro di Minsk il 16 di ogni mese, la giornata della solidarietà con i prigionieri politici, esibendo immagini dei politici e dei giornalisti d’opposizione scomparsi tra il 1999 e il 2000. Tra questi ci sono l’ex direttore della commissione elettorale, Viktor Gončar, e l’uomo d’affari Anatolij Krasovskij, entrambi scomparsi il 16 settembre 1999, quasi certamente uccisi da “squadroni della morte”.

Consapevoli che non avrebbero potuto vincere uno scontro diretto con un regime armato fino ai denti, gli oppositori si sono progressivamente spostati sul terreno che era stato occupato da anticonformisti, spiriti liberi e attivisti di varia natura, ovviamente sotto lo sguardo vigile dello stato. Il collettivo satirico Navinki ha dato un tono nuovo alla cultura della contestazione con il suo quotidiano autopubblicato e con il film Gudbaj Batska. La strategia della cultura della contestazione consisteva ormai nell’occupare ed espandere questi spazi di espressione personale. Internet ha svolto un ruolo decisivo. Dalla metà degli anni duemila, meme e illustrazioni online hanno deriso l’assurdità dell’ideologia di stato.

Artisti e scrittori
Frustrati e senza prospettive, molti giovani hanno lasciato la Bielorussia diretti nei paesi dell’Unione europea, negli Stati Uniti e in Canada. Ma altri hanno cominciato a incanalare il loro desiderio di cambiamento in progetti – ecologici, storici, legati all’istruzione e alla tecnologia – a cui potevano dedicarsi in relativa tranquillità. Negli ultimi quindici anni si sono sviluppate delle reti solide e abbastanza adattabili da sopravvivere in un ambiente ostile. Le proteste del 2020 devono molto a questo sistema di rapporti e strutture.

Negli anni duemila la forza trainante della nuova cultura della contestazione in Bielorussia è stata la scena artistica, di straordinaria vivacità. Il Belarus Free Theatre (Teatro libero bielorusso), fondato nel 2005, ha ottenuto fama mondiale con le sue produzioni radicali e sperimentali che affrontano temi come la violenza domestica, la pena di morte e il terrore psicologico in uno stato autoritario. Ma in Bielorussia la compagnia ha potuto esibirsi solo clandestinamente, e molti dei suoi fondatori e attori sono stati costretti a lasciare il paese.

Poi ci sono i giovani scrittori. Alhierd Bacharevič e Viktor Martinovič, per esempio, autori di romanzi che raccontano la vita in un sistema autoritario e repressivo. La libreria Lohvinaŭ è diventata il punto d’incontro della giovane scena letteraria, e la casa editrice legata al negozio è stata ripetutamente oggetto d’intimidazioni da parte del regime. Alla fine si è trasferita a Vilnius. Poetesse come Valžina Mort e Volha Hapeeva hanno creato uno spazio per le sperimentazioni linguistiche. Artur Klinaŭ, inizialmente conosciuto per le sue installazioni artistiche, ha lanciato la rivista di arte e cultura pARTisan nel 2002, creando uno spazio di discussione unico per le nuove tendenze artistiche, con un approccio olistico alla cultura della contestazione che ha avuto poi un ruolo fondamentale nel plasmare la strategie di mobilitazione che si osservano nelle manifestazioni di protesta di oggi.

Nel 2013 la filosofa Olga Šparaga scriveva che, “l’ultima generazione di artisti bielorussi sta dando un nuovo significato allo slogan femminista ‘il privato è politico’. L’opposizione a questo apparato statale gretto e disumanizzato sta facendo emergere una nuova sfera privata. E la moltitudine di modi in cui possiamo svolgere un ruolo nella società sta dando vita a una nuova politica”.

Un’esibizione degli attori del Belarus Free Theatre (Teatro libero bielorusso) a un festival di Sydney, Australia, gennaio 2009. (Wendell Teodoro, Getty Images)

Negli anni duemila le provocazioni, le installazioni e i lavori dell’artista Michail Gulin sono state elementi essenziali di questa controcultura straordinariamente vivace. Il 9 ottobre 2012 Gulin ha trasportato alcuni cubi rosa e gialli nel centro di Minsk, disponendoli in vari modi e osservando la reazione dei passanti. Quando l’installazione è arrivata in piazza dell’Ottobre, il luogo simbolo della proteste del 2006, Gulion è stato subito arrestato. La sua opera ha smascherato la paranoia del nuovo regime ed è ancora di grande attualità.

Il ruolo della solidarietà
Le proteste del 2020 in Bielorussia sono quasi totalmente pacifiche, sicuramente una reazione alle violenze vissute in passato dai bielorussi. L’altra caratteristica della mobilitazione attuale è la rete di solidarietà che si è creata. Prima delle elezioni i bielorussi avevano protestato contro l’arresto di Viktor Babariko, il più noto tra i potenziali candidati d’opposizione. Il 12 agosto 2020, tre giorni dopo il voto, 250 donne con in mano dei fiori bianchi si sono riunite spontaneamente di fronte al mercato Komarovskij, nel centro di Minsk, per manifestare contro la violenza. Questi flash mob si sono ripetuti durante tutte le proteste, per esempio dopo il rapimento di Maria Kolesnikova, che faceva parte del consiglio di coordinamento dell’opposizione. Questo genere di solidarietà si era manifestato per la prima volta a Minsk nell’estate del 2011. Poi sono stati i giovani a cominciare a organizzarsi sui social network. È stato l’inizio di un movimento di disobbedienza civile creativa, con i manifestanti impegnati ad aggirare le rigide regole sugli assembramenti negli spazi pubblici: una tattica fondamentale per le attuali proteste.

Quest’anno le dimostrazioni di solidarietà più imponenti hanno avuto luogo alla stazione della metropolitana Puškinskaja, a Minsk, dove Aleksandr Taraikovskij è stato ucciso dai colpi della polizia il 10 agosto. Migliaia di persone hanno visitato il luogo, lasciando fiori e fotografie.

Ma quali sono le radici di questo rinnovato senso di comunità, a parte l’indignazione popolare contro la violenza del regime? Innanzitutto bisogna tenere a mente che, rispetto agli anni precedenti, le persone che sono state vittime di abusi e torture sono molte di più. Solo nella prima settimana di proteste, gli arresti sono stati settemila. Alla fine di settembre il numero era salito a dodicimila. Le Nazioni Unite hanno riferito di 450 casi documentati di tortura e maltrattamenti.

Se si escludono le proteste di massa del 1995 e del 1996, in passato la repressione aveva colpito sopratutto le persone più esposte politicamente: militanti, personale delle ong, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Nel 2020 è stata l’intera società bielorussa a essere travolta da un’ondata di rabbia e di incredulità. La risposta del governo alla crisi del covid-19 ha gettato ulteriore benzina sul fuoco delle proteste. Lukašenko si è sempre rifiutato di riconoscere l’esistenza del problema, così la popolazione ha fatto ricorso a iniziative dal basso per organizzare i soccorsi e le misure di quarantena.

Questa capacità di costruire reti di mutuo soccorso è una delle strategie di sopravvivenza che i bielorussi hanno usato in passato in tempi di guerra e di crisi. Persone che per anni hanno vissuto accanto in quartieri dormitorio senza rivolgersi la parola, oggi organizzano insieme feste di condominio. Mangiano, cantano, ballano e si scambiano idee: “Con tutta la violenza che abbiamo vissuto quotidianamente da agosto, queste feste sono una specie di terapia collettiva”, spiega la storica Iryna Kastaljan.

Una manifestazione per ricordare l’uccisione di Aleksandr Taraikovskij da parte della polizia a Minsk, 15 agosto 2020. (Evgeny Maloletka, Bloomberg via Getty Images)

Alcuni luoghi hanno finito per incarnare l’idea di cambiamento. Plošča Peramen (Piazza del cambiamento), creata dagli attivisti il 6 agosto in un cortile di Minsk, ne è un esempio. Qui sventolano bandiere bianche e rosse e sui muri sono disegnati i simboli della protesta. Su una cabina elettrica c’è un graffito che rappresenta Kirill Galanov e Vladislav Sokolovskij, i due dj diventati simbolo delle proteste.

In uno dei tanti esempi di questa strategia di guerriglia pacifica, durante una protesta due giovani si sono messi a giocare a badminton di fronte alla sede del Kgb di Minsk, il simbolo stesso della repressione. Sui social network sono stati criticati per la loro leggerezza e ingenuità. Ma sono precisamente questi i motivi che danno senso al loro gesto, il cui obiettivo è smascherare la violenza, superare la paura grazie ad azioni innocue, pacifiche, apparentemente banali. Come gli abbracci nei primi giorni della mobilitazione.

Queste manifestazioni della cultura della contestazione si adattano perfettamente ai social network, al punto che sembrano concepite da esperti di marketing. L’esempio più lampante è la foto, scattata prima delle elezioni di agosto, in cui Svetlana Tichanovskaja, Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova mostrano rispettivamente il pugno, la V di vittoria e un cuore: un gesto riprodotto in un numero infinito di selfie. Lo stesso si può dire dei ritratti di Kolesnikova in una posa che ricorda il manifesto di propaganda del 1941 Rodina-Mat zovët (La madrepatria chiama). O dell’immagine di Jurij Korzun, il minatore che si è ammanettato a un impianto di trivellazione a trecento metri di profondità. Immagini che sono diventate meme e video su internet.

L’obiettivo è sempre evitare che il regime usi lo spazio pubblico come una piattaforma per la sua propaganda. Ma il regime può far poco per contrastare il linguaggio visivo dei manifestanti e la velocità con cui agisce il movimento.

L’importanza della cultura nel movimento di protesta è testimoniata anche dal consiglio di coordinamento dell’opposizione, di cui fanno parte la scrittrice Svetlana Aleksievič, il drammaturgo Andrej Kureičyk, il musicista Vladimir Pugač e il designer Vladimir Cesler. Artisti, poeti e musicisti come Nadežda Sajapina, Uladzimir Liankevič e Jurij Stylskij sono stati arrestati. Dopo l’arresto di Babariko, il dipinto Eva di Chaim Soutine è diventato una chiara espressione del potere dell’arte. Il quadro faceva parte della collezione privata di Babariko, che è stata confiscata. Gli è stato aggiunto un dito medio alzato, e l’immagine è stata stampata sulle magliette, poi vendute su internet.

Oggi ci sono decine di nuove canzone di gruppi pop, rock, punk, cantautori, band di elettronica e rapper, che danno voce a chi manifesta e alimentano il desiderio di libertà. Artisti che per lungo tempo sono stati marginalizzati hanno oggi assunto il posto che gli spetta in un’epoca di grande politicizzazione. Non è chiaro se le proteste porteranno vere trasformazioni. Ma oggi la cultura della contestazione in Bielorussia è più vibrante e audace che mai. Per un paese di 9,5 milioni di abitanti, dove l’anticonformismo è sempre stato una faccenda di nicchia, la vitalità e la diversità di questo universo sono travolgenti. Armata di una rinnovata coscienza di sé, d’idee nuove e di tattiche militanti, la cultura della protesta avrà di certo un ruolo importante nel futuro del paese. E spianerà la strada alla libertà.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato in tedesco sulla rivista Osteuropa del 10-11/2020 e in seguito, in inglese, su Eurozine. Copyright © Ingo Petz / Osteuropa / Eurozine

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