22 ottobre 2020 12:02

“Datteri, farina di ceci e sorgo”, spiega Habiba Harrazi a chi vuol fare un’ordinazione. Nella sua casa di Mazara del Vallo, storico porto peschereccio della Sicilia occidentale, prepara tre diversi tipi di makroud, dolci tipici della Tunisia. Il marito, Salem Alilou, è morto nel 2018 e da allora per lei cucinare non è più solo un passatempo. Con cinquecento euro di pensione di reversibilità e un figlio che studia a Siena è necessario arrangiarsi. “Ricamo anche vestiti per i matrimoni”, racconta nel salotto a mattonelle bianche e blu, che dà sulla strada ed è diventato un punto d’incontro per le donne della sua comunità. Tra loro, almeno una decina sono vedove di pescatori, come Harrazi.

Il numero non deve sorprendere, visto che l’80 per cento dei tunisini che vivono a Mazara del Vallo lavora nel settore della pesca. Le morti per incidenti o per malattie causate dalla vita in mare non sono rare. Secondo l’Istituto per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail), in quest’area i tunisini sono secondi solo agli italiani per numero di infortuni. Sempre l’Inail, in un rapporto redatto insieme al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, precisa che, anche se le malattie professionali per cui è previsto un indennizzo sono poche, “molti studi hanno comprovato l’esistenza di numerose tecnopatie legate alla pesca”.

Originaria di Mahdia, una città costiera duecento chilometri a sudest di Tunisi, Habiba Harrazi ha 63 anni ed è la più anziana tra le sue vicine. Cresciuta in una famiglia molto legata ai costumi della tradizione tunisina, ispira autorevolezza. “È stato mio padre a presentarmi Salem, dicendomi che era l’uomo che aveva scelto per me. Salem è venuto all’incontro direttamente con l’anello di fidanzamento”, racconta. “Nel giro di tre mesi ci siamo sposati e mi ha portato a Mazara nel 1980”.

Anche Zahira Hamza è di Mahdia, ha cinquant’anni e ad aprile di quest’anno ha perso il marito Rachid, che si è ammalato di tumore dopo trent’anni di lavoro sui pescherecci. “In ventitré anni di matrimonio ne abbiamo trascorsi solo cinque insieme”, racconta. “Non immaginavo una vita del genere perché non sapevo che fare il pescatore significa stare sempre in mare”.

In un’occasione, proprio per il suo lavoro, Rachid Hamza fu vittima di un sequestro: nel 1996 fu arrestato dalla guardia costiera libica mentre si trovava a bordo di un peschereccio in acque internazionali – che Tripoli però considerava acque territoriali libiche – e venne rinchiuso in una prigione di Misurata. Una vicenda che riporta alla mente il caso dei 18 marittimi di Mazara – tra cui sei tunisini – arrestati il 1 settembre 2020 nelle acque davanti a Bengasi dalla guardia costiera che risponde agli ordini del comandante Khalifa Haftar, l’uomo forte dell’est della Libia.

Rachid Hamza fu liberato dopo sei mesi. Oggi i 18 marittimi attendono da più di un mese di conoscere il loro destino. Le autorità della Libia orientale hanno accusato i pescatori di trasportare droga e intendono liberarli solo dopo che l’Italia avrà fatto lo stesso con quattro libici detenuti nel nostro paese dopo una condanna a trent’anni di carcere. Sono stati giudicati responsabili della morte di 49 migranti nella “strage di Ferragosto” del 2005. Per i libici, invece, sono “quattro calciatori” che si erano imbarcati per cercare fortuna in Europa.

Disoccupata e con quattro figli da mantenere, Zahira Hamza vive con i pochi risparmi che le ha lasciato il marito, nell’attesa di ottenere la pensione di reversibilità, cosa non sempre semplice. La convenzione Italia-Tunisia del 1984 permette di ricongiungere i contributi versati in entrambi i paesi per il raggiungimento della soglia pensionistica. È una procedura burocratica lenta e tortuosa, ma frequente.

Da sinistra: Habiba Harrazi, Saida Rafrafi e Zahira Hamza nel salotto di Harrazi, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020. (Sofia Calderone)

Oltre ai problemi economici, Zahira deve fare i conti con i giudizi che sente pesare su di sé. “Alcuni direbbero che ora sono contenta di prendere i soldi di mio marito, ma a me lui manca”. Quando una delle giovani figlie le ha chiesto di fare un giro in bici lei gliel’ha vietato, anche su consiglio di Habiba, perché non si addiceva al periodo di lutto. “Aspettavo sempre che tornasse Rachid per prendere le decisioni insieme”, racconta. Ora sono i consigli dell’amica e le regole della tradizione a guidarla. Per la prima volta deve decidere da sola cosa fare e confrontarsi con la famiglia in Tunisia sui figli, la casa e il tipo di lavoro da cercare. “Cerco di dirle come essere vedova con dignità”, spiega Habiba.

Secondo Francesco Mezzapelle, sociologo e giornalista locale, le donne tunisine vivono in una condizione particolare. “Le mogli, per niente integrate, sono venute a Mazara solo per raggiungere i mariti. Gli uomini che hanno sposato sono l’unico legame che hanno con la città, anche se sono sempre assenti, perché stanno in mare”. Scomparso questo legame, l’irrigidirsi sui costumi tradizionali tunisini sembra essere la reazione iniziale delle vedove.

“Alcune donne vivono all’ombra dei mariti. Quando diventano vedove, cambia il loro status tra i connazionali. La comunità tende a compatirle, identificandole ad oltranza come vedove”, spiega Samia Ksibi, mediatrice culturale della fondazione San Vito onlus di Mazara del Vallo. “A volte si disprezzano, perché pensano di non potersela cavare da sole. Ma con il tempo si rivelano più brave dei mariti a gestire ogni aspetto della vita, riscattandosi. Paradossalmente, nella loro nuova condizione, acquisiscono una maggiore autonomia, magari anche prendendo la patente”.

“Cerco di non essere più soltanto ‘la moglie di Rachid’, ma Zahira”, confessa la donna. “Mi sto preparando a tenere lontane le persone che vogliono dirmi cosa fare della mia vita”.

La casbah
Da piazza della Repubblica, nel centro della città, imboccando via Garibaldi, in breve il barocco cede il passo alla dimensione labirintica della casbah. Nella pianta a vicoli e cortili, nata dalla dominazione araba cominciata nell’827, vive buona parte dei circa tremila tunisini di Mazara del Vallo.

Vicino a largo Mahdia una coppia litiga di buon mattino davanti a casa, in arabo. Un mazarese in bici interrompe la conversazione per lamentarsi del chiasso che hanno fatto la sera prima: “Bisogna smetterla con questa musica alta a tutte le ore!”. Nel cuore dei vicoli, in via Pilazza, la casa di Ali Jmar è una tappa d’obbligo per i turisti. Paolo Ayed, una guida locale, spiega a un gruppo arrivato dall’Italia del nord l’origine delle decorazioni rosse e blu che tutti vogliono fotografare. “La moglie di Ali non tollerava che lui fumasse in casa e lui in balcone non voleva starci. Quindi Ali ha fatto del piano terra il suo rifugio, decorandolo a modo suo. Dall’interno è passato a decorare l’esterno. Da ex pescatore si è arrangiato a fare l’artigiano”.

Piazza Porta Palermo, nella casbah di Mazara del Vallo, 27 giugno 2020. (Sofia Calderone)

I tunisini arrivarono in Italia dalla fine degli anni sessanta del novecento, proprio a Mazara del Vallo, dove il settore della pesca era in forte crescita. Arrivarono grazie ai rapporti mantenuti con i siciliani emigrati in Tunisia dalla seconda metà dell’ottocento e tornati in patria dopo l’indipendenza del paese nordafricano nel 1956. Fino agli anni ottanta la migrazione tunisina fu quasi del tutto maschile, poi arrivarono le donne con i ricongiungimenti familiari. Oggi, nella cittadina a cinquanta chilometri da Trapani, le donne formano il 40 per cento della comunità. Dopo il terremoto del 1981, molti edifici della casbah, danneggiati ed abbandonati, furono occupati dai tunisini che s’insediarono nel quartiere.

Lo stesso anno aprì una scuola elementare dove si parlava arabo e francese. “Nacque per volere del governo tunisino, che intendeva aiutare i suoi cittadini all’estero, in previsione di un progetto per favorire il ritorno degli emigrati che poi fallì”, spiega Antonino Cusumano, presidente dell’istituto Euroarabo di Mazara del Vallo. Salah Omri, il maestro della scuola, spiega con orgoglio che “il governo tunisino vuole ancora far sentire la sua presenza”. In realtà, malmessa e con soli 18 studenti, la scuola è ciò che rimane di un’idea svanita, il simbolo di un’integrazione mai realizzata in pieno.

Ritorno alle origini
Il 1 agosto, al porto di Tunisi, dev’essere stato insolito per il doganiere di turno veder arrivare una giovane con un mazzo di fiori in mano. Chedlia ha 22 anni, è nata e vive a Mazara del Vallo, parla arabo ma non lo legge, cosa che capita spesso tra i tunisini di seconda generazione. Con la madre Fatima è andata a trovare il padre a Biserta, 65 chilometri a nord della capitale tunisina. “I fiori sono per mio padre”, ha detto al funzionario che le chiedeva spiegazioni. “E lui dov’è?”.

Lo scorso 14 giugno, Bechir Lazrak, 57 anni, originario di Biserta, è caduto dal peschereccio mazarese Maleno che era ormeggiato nel porto di Cagliari. Quel giorno, alle 7.51, Chedlia l’aveva chiamato per comunicargli la data della sua laurea a Palermo e il padre le aveva risposto che sarebbe tornato per l’occasione. Alle 8.45 l’armatore del Maleno si è presentato a casa di Chedlia per comunicare l’incidente. Secondo l’autopsia Lazrak è morto per arresto cardiaco.

“Sono al 99 per cento mazarese, tutti i miei amici sono mazaresi, ma con il lutto ho riscoperto le mie origini tunisine”, dice Chedlia, che fino alle scuole medie si vergognava di rispondere all’appello, perché i compagni la deridevano per il nome straniero. Preferiva farsi chiamare Lucia. “Sono sempre stata una musulmana osservante, ma adesso lo sono ancora di più”, spiega. Non ha mai vissuto a lungo in Tunisia, ma ci era andata ogni tanto per visitare i parenti. “Ora che mi trovo qua mi sento veramente tunisina e sento il bisogno di rimanere”.

La madre Fatima lavora solo occasionalmente e i risparmi del marito, che guadagnava circa 700 euro al mese, sono quasi finiti. La conforta la fiducia nella figlia. A differenza della madre, Chedlia è più integrata e ha tutti gli strumenti per capire cosa fare ora. In cima ai suoi pensieri non ci sono gli studi, ma la ricerca di un nuovo equilibrio che passi per Biserta.

Chedlia non sa cosa ancora faranno né come si sentirà al ritorno in Italia. Per il momento ha portato al padre i fiori ricevuti dopo la laurea in Scienze politiche. “Cosa devo fare a Mazara adesso che lui non c’è più? Eppure mi sembra che debba ancora tornare dal mare”.

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