03 gennaio 2017 16:30

L’esercito francese non avrebbe potuto sognare una tempistica migliore. Tre settimane prima della fine ufficiale dell’operazione Sangaris (la missione militare lanciata nel 2013 per fermare le violenze tra cristiani e musulmani nella Repubblica Centrafricana), prevista per il 31 ottobre 2016, è stato rivelato dalla stampa un memorandum interno delle Nazioni Unite. Il documento torna sulle accuse di stupro rivolte alle truppe internazionali presenti in territorio centrafricano e suggerisce che alcune vittime “avrebbero ricevuto degli incentivi finanziari per testimoniare”.

Poco importa che il documento riguardi principalmente gli abusi commessi dalle truppe del Gabon e del Burundi, e che non rimetta in discussione le accuse di violenze su minori di cui si sarebbero resi colpevoli i soldati francesi vicino al campo profughi di Mpoko a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana. E poco importa che questi “incentivi finanziari” siano in realtà degli aiuti forniti dalle organizzazioni umanitarie. Il dubbio è stato comunque insinuato. E il ministero della difesa francese ha avuto gioco facile a sottolineare la “leggerezza” dell’Unicef, che ha raccolto le testimonianze di accusa.

Eppure di dubbi non ne restano molti a chi si prenda la briga di andare a Boda per indagare. A 190 chilometri da Bangui, la città ha il tipico aspetto di un centro minerario. La strada che vi conduce è in buone condizioni: Boda si trova nella regione natale del presidente-fondatore della Repubblica Centrafricana, Barthélemy Boganda, e dell’imperatore autoproclamato Jean-Bedel Bokassa. La via più animata della città è una stretta striscia di terra battuta che parte dalla rotonda dove sono parcheggiati i moto-taxi. La stazione di benzina Total è stata riconvertita in un bar. Al calare della notte, i cercatori di diamanti lasciano le zone degli scavi per andare nel locale a spendere in birra il loro eventuale bottino. In quest’angolo della foresta equatoriale si trova la prova potenziale di un atto di violenza su una minore compiuto da un soldato francese.

Il piccolo Elie si fa sentire nel cortile con i suoi strilli gioiosi. Ha la pelle chiara, i vicini lo chiamano ‘il francese’

La famiglia Pazoukou abita in una casa di mattoni in terracotta. L’entrata è chiusa da una porta senza serratura. Il piccolo Elie (i nomi sono stati modificati) si fa sentire nel cortile con i suoi strilli gioiosi. Ha un anno e cinque mesi, e si diverte a spargere ovunque la pappa che gli viene data per colazione. Ha la pelle chiara. I vicini lo chiamano “il francese”.

Quando i soldati francesi del contingente Sangaris erano arrivati a Boda, nel febbraio del 2014, avevano stabilito la loro base nel centro della città. Il loro compito era interporsi fra i gruppi anti-balaka – che si erano eretti a difensori dei cristiani della città – e i gruppi di “autodifesa” musulmani. A quell’epoca i combattimenti avevano già fatto diverse centinaia di vittime.

Noella Pazoukou, una delle ragazze della famiglia, vendeva pomodori ai “Sangaris” su una bancarella di fronte alla base. I suoi capelli raccolti in trecce fanno risaltare il suo volto da adolescente. Un giorno dell’estate 2014 un militare francese l’ha notata. Grazie a un intermediario, un ragazzo del posto chiamato Alban, le ha fatto qualche complimento e le ha dato appuntamento per una sera alle sei. La ragazza ha accettato il suo corteggiamento.

“Mi ha fatto entrare in una piccola casetta che si trovava nel loro campo. Abbiamo fatto l’amore. Era la mia prima volta. Alla fine mi ha dato 15mila franchi cfa (23 euro). Ma tornando a casa alcuni anti-balaka di pattuglia me li hanno presi”, racconta con voce esitante Noella nella sua lingua materna, il sango. La ragazza non parla francese, ha interrotto gli studi alle elementari. Una meningite contratta a sette anni le ha lasciato delle conseguenze: per molto tempo non ha potuto parlare e ancora oggi continua ad avere problemi di udito. Incontrata a casa sua il 13 e il 14 ottobre 2016, la ragazza racconta quello che è accaduto interrompendosi di tanto in tanto per andare ad alimentare il fuoco sotto la tettoia che serve da cucina: “Ci siamo rivisti un’altra volta, allo stesso posto. Abbiamo avuto un altro rapporto sessuale e poi un giorno è ripartito con tutto il suo gruppo. E non ho mai più avuto sue notizie”.

Nel vortice della guerra
All’inizio dell’ottobre del 2014 i soldati francesi presenti a Boda hanno passato il testimone ai caschi blu della Minusca, la Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Centrafrica, per tornare in Francia. Noella è stata travolta dal vortice della guerra. Con la madre e i suoi sette fratelli e sorelle ha dovuto lasciare la casa di famiglia. “A causa dei massacri in città siamo fuggiti in campagna. Ero già incinta, ma solo tornando a casa ho detto a mia madre che non mi sentivo bene”. Quest’ultima – che ha perso il marito quando Noella era ancora piccola – cerca di far vivere la famiglia vendendo foglie di kojo e bruchi arrostiti. Quando sua figlia le aveva raccontato di essere incinta di un soldato francese, Solange Pazoukou non le aveva creduto. Ma solo fino al giorno della nascita e della scoperta della pelle, quasi bianca, del neonato.

Quattro mesi dopo, nell’agosto del 2015, Solange Pazoukou ha presentato una denuncia alle autorità centrafricane, dopo “aver sentito alla radio un programma sugli abusi sessuali”. Il 4 settembre 2015 la procura di Parigi ha confermato che il suo caso era al centro di un’inchiesta per “violenza sessuale compiuta da una persona che ha abusato dell’autorità conferita dalle sue funzioni”. In effetti, anche se la costrizione fisica o la violenza non sono stati dimostrati, l’autore può comunque essere condannato per atti sessuali con minore di più di 15 anni da parte di una persone che abusi dell’autorità conferita dalle sue funzioni (articolo 227-27 del codice penale), e di violazione di consegne. Perché Noella era probabilmente minorenne al momento dei fatti. Secondo le prime conclusioni degli investigatori francesi, la ragazza aveva 17 anni. Sedici anni, ci assicurano sua madre e il procuratore di Boda, Olivier Mbombo Mossito.

Noella Pazoukou e suo figlio. (Damien Roudeau)

Di fatto la famiglia Pazoukou non ha alcuna possibilità di avere un processo nel suo paese. Infatti, in virtù dell’accordo concluso tra il governo francese e quello centrafricano il 18 dicembre 2013, alcuni giorni dopo l’avvio dell’operazione Sangaris, i militari francesi che si rendono colpevoli di crimini o di reati nel corso della missione possono essere giudicati solo dalla giustizia francese. Una sezione specifica della gendarmeria, la gendarmeria prevostale, è incaricata delle inchieste nei confronti dei militari nel corso delle operazioni all’estero.

Incaricata del caso nel settembre del 2015, la procura di Parigi ha impiegato otto mesi per rivolgere alle autorità centrafricane una domanda di collaborazione penale internazionale (che è stato possibile consultare) per “procedere all’audizione di qualunque testimone suscettibile di fornire elementi sui fatti o sulle loro circostanze”. Sono passati altri cinque mesi perché i gendarmi francesi andassero a Boda per mostrare a Noella alcune foto di militari per identificare il padre di suo figlio.

Nel frattempo il principale testimone, Alban, colui che avrebbe svolto il ruolo di “intermediario”, aveva lasciato Boda per Bangui. Quanto a Noella, le è stato chiesto di identificare attraverso delle foto un uomo che aveva visto per l’ultima volta due anni prima e che aveva incontrato in tutto solo due volte.

Gli investigatori francesi, anche se hanno potuto vedere il bambino, non hanno proceduto a un test del dna

La fuga di notizie sul memorandum dell’Onu, nel quale si parla di possibili somme di denaro ricevute dalle vittime centrafricane in cambio di testimonianze di accusa contro il contingente internazionale, ha focalizzato l’attenzione della stampa e della politica sull’attendibilità delle testimonianze dei minori. Paradossalmente, però, l’unico caso in cui una prova materiale potrebbe attestare un abuso, quello di Boda, sembra ricevere un’attenzione limitata anche da parte degli investigatori incaricati del caso. Questi, infatti, hanno mostrato a Noella delle foto di uomini con capelli più lunghi, mentre mentre all’epoca dei fatti il soldato in questione aveva la testa rasata. E gli stessi investigatori, anche se hanno potuto vedere il bambino, non hanno proceduto a un test del dna e hanno semplicemente chiesto ai familiari il suo gruppo sanguigno – cosa che ovviamente la famiglia non conosce.

Il ritardo con il quale si è proceduto ad ascoltare la presunta vittima sarebbe invece dovuto, secondo la testimonianza di due fonti vicine al caso, a un problema logistico. I gendarmi, infatti, hanno dovuto aspettare diversi mesi prima che l’operazione Sangaris mettesse a disposizione un elicottero per andare a Boda. Dal canto suo il ministero della difesa francese, interrogato su questi ritardi, ha affermato che “il ministero coopera pienamente con le autorità giudiziarie”.

Questo semplice episodio pone un interrogativo sull’indipendenza della gendarmeria prevostale, i militari incaricati di indagare su vicende che riguardano altri militari con i mezzi degli stessi militari. “La sezione prevostale si appoggia alle forze armate con le quali è presente sul posto. Questi agenti hanno i mezzi della gendarmeria (le loro armi, gli strumenti di polizia giudiziaria), ma per svolgere la loro azione dipendono dalle forze armate”, conferma il viceprocuratore incaricato dei casi penali militari presso il tribunale di Parigi, Sandrine Guillon. “E se c’è bisogno di usare i mezzi militari per la missione militare, è ovvio che quest’ultima passerà sempre prima dell’inchiesta prevostale”.

Secondo il magistrato la smobilitazione progressiva dei mezzi usati nella missione Sangaris è stata la causa della lentezza del lavoro degli investigatori. Dopo che l’operazione è terminata alla fine di ottobre del 2016, ci si può chiedere se gli elicotteri continueranno ancora a decollare per Boda.

Alla fine di ottobre del 2016 la denuncia presentata dalla ragazza di Boda è arrivata nell’ufficio del procuratore di Parigi, dove si trova già un’altra decina di denunce per stupri e altri reati sessuali che sarebbero stati commessi da soldati dell’operazione Sangaris. Dall’aprile del 2015 e dopo le rivelazioni del quotidiano britannico The Guardian su un rapporto interno dell’Onu in cui si denunciavano le violenze sessuali su quattro minorenni (sotto forma di rapporti orali in cambio di denaro o di cibo), l’elenco delle accuse contro i soldati francesi si è allungata. Ufficialmente la procura di Parigi, incaricata delle indagini, non vuole “pronunciarsi” sul numero, preferendo “ragionare in termini di inchieste chiuse”.

Il campo profughi di Mpoko, a Bangui. (Damien Roudeau)

Dopo una prima serie di accuse da parte delle minori del campo profughi di Mpoko, a Bangui, la giustizia ha preso conoscenza nel 2016 di un rapporto dell’Unicef che parla di un centinaio di violenze che sarebbero state compiute nella regione di Dékoa, nel centro del paese. Il rapporto accusa soprattutto i soldati dei contingenti del Burundi e del Gabon, ma cita a margine anche le forze francesi. Bisogna poi aggiungere le testimonianze raccolte dagli inquirenti centrafricani, che hanno identificato e ascoltato una decina di vittime del campo di Mpoko (non tutti i casi coinvolgono militari francesi), come riferisce il tenente Kossi che all’epoca dirigeva la sezione di ricerca e indagine della gendarmeria centrafricana, incontrato il 18 ottobre a Bangui. Infine, più di recente, un’associazione centrafricana ha presentato una denuncia per uno stupro collettivo che sarebbe stato compiuto da soldati della missione Sangaris vicino al ponte Jackson, a Bangui.

La punta dell’iceberg
Medici senza frontiere (Msf) ha inoltre affermato, certificati medici alla mano, di aver segnalato alla giustizia francese altri tre casi di violenze sessuali su minori – un fratello e una sorella di 7 e 9 anni, e una bambina di 13 anni. I casi e i certificati presentati dall’ong confermerebbero tracce di violenza sessuale oltre a segni di corde su una delle vittime.

Il ministero della difesa sembra ammettere che alcuni stupri o abusi sessuali siano stati effettivamente commessi da soldati francesi nella Repubblica Centrafricana. Contattato per email il 20 dicembre 2016, il ministero ricorda che per quanto riguarda questo tipo di casi “ogni volta che i fatti venivano verificati e gli autori identificati”, i “militari chiamati in causa” sono stati “allontanati dal teatro” dell’azione e hanno subito delle “sanzioni disciplinari che possono arrivare fino al congedo dal servizio o alla risoluzione del contratto”. Alla richiesta di precisare il numero di casi verificati, il ministero non ha dato risposta.

I casi arrivati sulla scrivania del procuratore a Parigi sono solo la punta dell’iceberg? Secondo i documenti e le storie raccolte nella Repubblica Centrafricana e in Francia presso dei militari che hanno partecipato all’operazione, diversi soldati francesi hanno in effetti contrattato delle prestazioni sessuali con civili sia maggiorenni che minorenni. Fatti che i giudici francesi potrebbero un giorno definire violenze su minori o reati sessuali di chi abusa dell’autorità della sua funzione. Di fatto questa “prostituzione di sopravvivenza” sarebbe stata tollerata dal comando militare a Bangui, anche dopo l’arrivo della prima serie di denunce (quelle dei minori di Mpoko) al ministero della difesa nel luglio del 2014. Gli alti ufficiali erano quindi stati avvertiti della condotta a rischio dei loro subordinati.

Il 3 agosto 2014, otto mesi dopo l’inizio dell’operazione, diversi ufficiali e sottoufficiali francesi presenti a Bangui avevano segnalato con rapporti scritti al generale L. dell’Ispezione generale delle forze armate, i problemi relativi all’accampamento Sangaris, che si trovava vicino al campo profughi di Mpoko. In questi documenti interni dell’esercito, intitolati Resoconti riguardanti la protezione della forza, che abbiamo potuto consultare, alcuni sottufficiali e un ufficiale superiore – un colonnello – avevano avvertito i loro superiori.

Questi militari parlavano dell’accampamento francese come di una “vera e propria groviera”, nel quale era difficile evitare “i furti e le intrusioni”. Inoltre un caporalmaggiore aveva chiesto che l’ingresso dell’aeroporto fosse rafforzato con filo spinato perché “le persone possono entrarvi senza essere prima controllate al checkpoint, così da rendere il lavoro delle forze armate praticamente inutile”. E aggiungeva: “Il campo profughi (adiacente all’accampamento militare) dovrebbe essere più controllato perché suscita numerosi problemi, in particolare la richiesta di razioni alimentari ai soldati da parte degli stessi profughi. Inoltre facilita l’infiltrazione (sic) di una rete di prostituzione molto attiva durante la notte”.

Un colonnello aggiungeva: “Questa vicinanza con i locali favorisce lo sviluppo di proposte riguardanti alcol, droghe, prostituzione”. Un sergente chiedeva insistentemente di “aumentare la prevenzione per quanto riguarda la prostituzione che potrebbe essere usata contro l’immagine della forza”. E, tra le altre cose, evocava “l’uso di bambini per disturbare il lavoro delle sentinelle e delle pattuglie”. Un altro sottufficiale segnalava infine che i militari avevano “problemi di prostituzione con il calare della notte all’entrata dei checkpoint e dell’Apod (Air point of debarquement)”. Quali misure sono state prese dal comando dell’operazione in seguito a queste segnalazioni? Contattato, il ministero della difesa francese non ha risposto ma ha sostenuto che “la Francia mette in opera una politica rigorosa di ‘tolleranza zero’ in materia di sfruttamento e abusi sessuali”.

Jules si è confrontato più di una volta con questa prostituzione di sussistenza accompagnata dall’abuso di autorità

A riprova della tesi di un campo poco controllato, una fonte vicina al caso afferma che “fra i documenti declassificati (classificati come segreto militare durante l’indagine giudiziaria) figura un rapporto non manoscritto che parla degli stessi problemi”, cioè della porosità del campo e della prostituzione. Jules (nome di fantasia), un ufficiale che è rimasto undici mesi nella Repubblica Centrafricana, dal 2013 al 2014, si è confrontato più di una volta con questa prostituzione di sussistenza accompagnata dall’abuso di autorità. Una prima volta, ricorda il militare, un soldato di guardia che non apparteneva alla sua unità era stato colto sul fatto dal suo superiore mentre “si faceva fare un pompino attraverso la recinzione” del campo francese a Bangui – l’ufficiale non ha precisato se si trattava di una minorenne o di una maggiorenne. Un’altra volta uno dei suoi commilitoni, che era andato con un prostituta, ha dovuto essere rimpatriato per ragioni mediche (probabilmente per la somministrazione di antiretrovirali), a causa della rottura del preservativo.

In un’altra occasione l’ufficiale sarebbe stato avvertito che una madre di famiglia avrebbe venduto le prestazioni sessuali di sua figlia a diversi soldati. “Si trattava di un’unità di combattimento, ragazzini che avevano al massimo fra i 18 e i 25 anni”. Jules aveva chiesto conferma al loro responsabile: “Era molto arrabbiato. Mi ha risposto: ‘Cazzo! Sono degli stronzi! Non so dove ma, sì, è successo’”. Questo caso, tuttavia, non è mai arrivato alla procura di Parigi.

Nello stesso periodo, fra l’aprile e il novembre del 2014, una commissione d’inchiesta internazionale sulla Repubblica Centrafricana è stata incaricata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu di indagare sulle violazioni dei diritti umani nel paese. Questa commissione ha ricevuto “diverse testimonianze di violenze e di abusi sessuali da parte di vittime e di ong attribuite ai caschi blu della Minusca, i caschi blu africani della Misca e i militari di Sangaris”, ricorda uno dei tre investigatori della commissione, l’avvocata mauritana Fatimata M’Baye, che ha accettato di rispondere alle nostre domande. “In effetti ci hanno detto che alcuni soldati della Sangaris avevano rapporti con minori, con delle ragazze minorenni”.

La strada tra Bangui e Boda. (Damien Roudeau)

In “diverse occasioni” gli investigatori si sono recati al quartier generale di Sangaris per “parlare con il comando”: “Dovevamo sapere in particolare quale unità si trovasse in un determinato posto ma ci siamo scontrati con una sorta di ostruzionismo. Si trattava di una questione delicata e non hanno voluto parlarne con noi. Abbiamo capito che non era la prima volta che queste accuse erano rivolte a questi soldati”.

In mancanza di risposte e per evitare un rapporto di condanna, la commissione si è quindi concentrata sulle altre forze messe sotto accusa. Nel documento pubblicato il 6 dicembre 2014 – cinque mesi prima delle rivelazioni del Guardian – la commissione ha comunque inserito questa frase: “La Commissione ha ricevuto delle dichiarazioni su violazioni (dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario) compiute dalle forze della Misca, della Minusca e di Sangaris”. Ma affermava di avere “risorse limitate” per giustificare l’assenza di inchiesta sulle accuse che riguardavano in particolare i francesi.

Invitato a confermare lo svolgimento di questi incontri con gli esperti delle Nazioni Unite e a spiegare le ragioni di questo “ostruzionismo” descritto dall’avvocata mauritana, il ministero della difesa non ha risposto.

Chissà, forse il comando di Sangaris voleva riservare le sue dichiarazioni all’autorità prevostale? Tuttavia sulla base del rapporto dell’inchiesta dei gendarmi francesi del 5 maggio del 2015, che abbiamo potuto consultare, è lecito dubitarne. Infatti, sentiti fra il 2 e il 9 agosto del 2014, due ufficiali francesi – uno distaccato presso le forze europee Eufor, l’altro presso il 152° reggimento di Colmar – si dichiaravano “stupefatti dalle accuse” di violenza sessuale: “A causa della prossimità fisica dei loro uomini, fatti di questo genere avrebbero potuto difficilmente essere realizzati nella discrezione e avrebbero necessitato di conseguenza della complicità di diverse persone”.

Dichiarazioni quanto meno sorprendenti, quando si sa che nello stesso momento, il 3 agosto, alcuni loro subordinati facevano arrivare all’Ispezione generale delle forze armate a Parigi i loro rapporti in cui avvertivano della permeabilità dell’accampamento, della presenza di una consistente attività di prostituzione e della presenza di bambini attorno ai posti di guarda e di pattuglia. Una serie di documenti scritti dai sottufficiali sotto il loro comando e di cui difficilmente avrebbero potuto ignorare l’esistenza e il contenuto.

Le risposte degli ufficiali superiori di Sangaris hanno comunque avuto l’effetto previsto. Nel rapporto finale della loro inchiesta, i prevosti sono arrivati alla conclusione che “sul ‘terreno’ non c’era abbastanza intimità per permettere degli atti sessuali”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questa inchiesta fa parte di una serie in sei parti del progetto Zero Impunity, che documenta e denuncia l’impunità di cui godono i responsabili di violenze sessuali in contesti di guerra. Il progetto è a cura di Nicolas Blies, Stéphane Hueber-Blies e Marion Guth (a_Bahn), un gruppo di “documentaristi attivisti” che attraverso il loro sito promuovono anche una mobilitazione online per chiedere alle autorità di dotarsi degli strumenti necessari a combattere questo fenomeno e a perseguire i colpevoli.

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