26 dicembre 2020 11:02

Milano. Momento distopia quotidiano al piano binari della stazione centrale: per andare a ritirare un sacchetto di cioccolatini c’è da attraversare un posto di controllo con militari in mimetica che verificano identità, destinazione, eventuale autocertificazione. Il negozio di una nota cioccolateria torinese si trova nell’area partenze, dove ci sono il controllo biglietti e il termoscanner a distanza. Oltrepassati i varchi, arrivati al negozio, finalmente si estrae il telefono, si mostra l’ordine alla commessa, si respinge con garbata fermezza la sua offerta speciale, e si ritira un sacchetto sigillato con dentro una selezione casuale di cioccolateria, dai cremini alle scaglie di uovo pasquale nocciolato, anche da riciclare come regali.

La parte interessante, per molti, è che si sono spesi nove euro anziché 25 (valore calcolato sui prezzi del negozio), sia pure per merce che sta per essere tolta dagli scaffali, tipicamente perché sta per scadere ma non necessariamente. E ciò mediante l’app Too good to go (Tgtg) che, nata in Danimarca nel 2015, raccoglie oggi più di venti milioni di utenti tra Europa e Stati Uniti (circa 1,9 milioni in Italia, secondo le stime dell’azienda). Un esercito di cacciatori di affarucci che la piattaforma mette in contatto: da un lato i negozianti alle prese con un cronico accumulo di merce invenduta e con date di scadenza alle viste; dall’altro, i consumatori desiderosi di risparmiare sulle spese alimentari.

In pratica è l’equivalente della sharing economy del fare l’ultimo giro al mercato, quando le bancarelle smontano, per spuntare qualche chilo di frutta e verdura a prezzi stracciati. Ma attenzione, c’è anche il concept etico: combatti lo spreco, registrati e diventa waste warrior. In Italia ogni famiglia getta cibo per un valore di quasi cinque euro alla settimana, in totale 6,5 miliardi all’anno, secondo una ricerca della Coldiretti/Ixè.

A scatola chiusa
Diventare waste warrior significa semplicemente scrollare l’app sui telefoni, individuare opportunità d’acquisto, cliccare, comprare, ritirare. Svoltare la cena, volendo; o anche solo una merenda. I croissant e le graffe di stamattina dal fornaio; una vasca da un chilo (che vien via a nove euro anziché a 24) di gusti che il pur rinomato gelataio non riesce a smerciare (tamarindo e finocchio?); le specialità su cui il negoziante si è troppo entusiasmato. Ogni cosa viene venduta al 30-50 per cento del prezzo originale, e a scatola chiusa; l’effetto sorpresa può anche tradursi nell’acquisto involontario di tre barattoli di crema al cocco o improbabili bevande tropicali; toast senza speranza tipo la Luisona di Stefano Benni. O cavoli consimili. D’altronde se è merce invenduta, una ragione ci sarà.

In Italia il responsabile dell’azienda si chiama Eugenio Sapora, ha 36 anni, è un ingegnere aerospaziale volato dalla sua Torino a Tolosa per studiare e poi da lì per lavorare “a Parigi, dove ho lasciato tutto ciò per cui avevo studiato per dedicarmi a un progetto che mi ha fatto innamorare: La ruche qui dit oui (L’alveare che dice sì), una piattaforma per gruppi di acquisto di generi alimentari freschi, una forma di consegna a domicilio basata sull’interazione tra contadini e cittadini. Un piccolo team, dieci persone, per dieci milioni di giro d’affari”. Un buon candidato per Mette Lykke, che nel 2015 in Danimarca ha fondato Too good to go. Nel 2019 gli affida il mercato italiano. Sapora accetta: all’inizio lavora con tre persone in un piccolo coworking. “Quando si è trattato di espandere lo staff ho preso il treno all’alba, alle 9.30 ero a Roma Termini, non sono nemmeno uscito dalla stazione, mi son piazzato al piano del food, ho fatto dieci colloqui e alle otto di sera son tornato su a Milano”.

Ma la cosa più difficile per un’app di questo tipo è raggiungere la massa critica interessante sia di utenti sia di negozi convenzionati. “All’inizio, è stato difficile. Non avevamo ancora nemmeno l’app sull’Apple store, andavamo in giro per negozi con il database, dicendo: siamo un’app che esisterà, se vuoi iscriverti mi servirebbe adesso il tuo iban, la partita iva…. Però siamo partiti a Milano il 27 marzo 2019 con un’offerta di cinquanta negozi. Non tanti: ma all’epoca era stato un mese di lavoro; oggi cinquanta nuovi negozi li aggiungiamo alla nostra rete in un giorno e mezzo”. Tra cui alcuni grandi nomi. “Per me, torinese, l’adesione della Caffetteria del Cambio ha segnato la svolta: sono nomi che parlano ai torinesi. E per fare primi passi nelle varie città, i brand famosi sono importanti. Carrefour o Eataly sono storie nazionali; convinci uno, arrivano tutti, mentre il mondo Conad è fatto di tremila proprietari diversi, decide il singolo e devi parlarci uno per uno”.

Oggi a Milano i negozi convenzionati sono circa 650, mentre a Roma un migliaio. In Italia tra il marzo 2019 e la fine del 2020 Too good to go è passata da uno a ottanta dipendenti, e da zero a quasi due milioni di iscritti, per 6.500 punti vendita aderenti in tutto il paese e circa un milione e mezzo di magic box vendute. “Il primo lockdown l’abbiamo preso in piena faccia, il famoso venerdì di Codogno da un giorno all’altro ha fatto chiudere la Lombardia. Situazione inattesa, niente più cibo, non c’è più spreco alimentare, app inattiva, collasso: meno 80 per cento di transazioni”.

Secondo alcuni, il modello Too good to go servirebbe in realtà più a consolidare lo spreco che a ridurlo

Le premesse per la svolta in realtà si sono create lì. “Dopo il lockdown molti piccoli commercianti si sono trovati a dover decidere se aprire o no; le città grandi sono ancora semivuote, c’è indecisione: Too good to go ha consentito a molti di evitare sprechi, garantirsi un minimo di marginalità, e spesso anche di allargare la clientela”. E la fetta di torta della medesima Too good to go? “La formula non è fissa, ma la commissione si aggira intorno a un euro”. Conviene agli esercenti? “Ricorda sempre: è una app antispreco, se non hai spreco vai sottocosto. Se hai spreco, è un modo di rivalorizzarlo. Aiuta alcuni negozianti a essere più rilassati”.

Uno che sembra rilassato, forse anche perché alle 15.30 subentra l’ora tranquilla di un lavoro che comincia all’alba, è Mario Zanotta, titolare della trattoria San Filippo Neri con annessa rosticceria (cucina milanese, trippa cassoeula, mondeghili e risotto) a metà di viale Monza, la chilometrica arteria che da piazzale Loreto porta a Sesto San Giovanni. “Dalle 14.15, dopo il pranzo, cominciano le consegne di Magic Box”, dice Zanotta. “Ci arrivano una ventina di richieste a pranzo, una ventina a cena; a maggio eravamo sulle cinque-sei al giorno. La cosa piace molto e ci porta molta clientela. Sta diventando comune dopo il lockdown; prima avevamo molti avanzi, ora tendiamo allo zero. Per due euro e 99 ti trovi un sacchetto con dentro una vaschetta di primo e una di secondo; c’è chi ne porta a casa tre o quattro, per tutta la famiglia; qualcuno se ne prende una e va a consumarla ai giardinetti”. Ci si guadagna? “Non un granché, ma gli avanzi sono fastidiosi, buttare via roba da mangiare è un colpo al cuore. In alternativa puoi etichettare i resti, surgelarli con l’abbattittore e stoccarli nei freezer, ma è tanto lavoro. Dopo panetterie e supermercati, siamo stati tra i primi ristoranti a lavorare con Too good to go, ha funzionato anche come pubblicità”.

I critici
Nell’Europa del nord, dove la corsa a conciliare affari e lotta allo spreco è più avanti, concorrenti come Karma o Whywaste, sull’asse Londra-Stoccolma, si stanno attrezzando con algoritmi in grado di prevedere, e quindi di arginare, gli avanzi e il relativo spreco. Secondo alcuni, il modello Too good to go servirebbe in realtà più a consolidare lo spreco (con la promessa di convertirlo in fondo cassa) che a ridurlo.

Va detto che uno dei critici dell’app fa parte della concorrenza: lo svedese Hjalmar Ståhlberg Nordegren, amministratore di Karma, piattaforma che non punta tanto sulla vendita dell’invenduto quanto su un dialogo continuo con esercenti e ristoratori per la gestione degli ordini e degli avanzi, precisa: “Non è che io ce l’abbia con Tgtg, il loro lavoro sulla consapevolezza dello spreco di cibo (food waste awareness) è ottimo”, (sfumatura: come dire che lavorano più sulla percezione del problema che sulla sua rimozione, ndr). Ma “detto questo sono preoccupato per la diffusione di presunti modelli per ridurre gli sprechi alimentari che in realtà peggiorano il problema”. E per concludere sostiene che “ovviamente stiamo facendo anche autocritica: come azienda del settore che tenta di trasformare gli sprechi in affari, corriamo in parte lo stesso rischio. Ma la cosa che vorrei sottolineare, è che chi gioca in questo campo oggi dovrebbe assumersi la responsabilità di istituire nuovi modelli, non limitarsi a trovare modi nuovi di trarre il massimo profitto da quelli vecchi”. E a supporto snocciola cifre a cura dell’organizzazione non profit statunitense ReFed: “Nella ristorazione raccogliere dati per ottimizzare la gestione delle risorse vale 2.282 dollari a tonnellata; commercializzare avanzi ne vale 218”.

In generale, la risposta di Sapora alle critiche è una versione concisa delle risposte che l’amministratrice delegata dell’azienda, Mette Lykke, ha dato su Sifted, sito che fa parte del Financial Times. “Si può sempre trovare il pelo nell’uovo. Di certo ora la nostra app è valutata 4,9 su 5; è quella di riferimento per i consumatori, con ottimi volumi di cibo venduto anziché sprecato”, dice Sapora.

A voler estendere la discussione bisognerebbe poi andare a vedere se l’utente, alla fine, mangerà la merce comprata tramite l’app o la butterà via. Insomma, quanto del cibo che si voleva recuperare andrà comunque sprecato. Il dibattito è aperto.

Tornando però ai consumatori milanesi, un fenomeno secondario di Tgtg è che, durante le varie fasi di chiusura parziale della città, ha sempre fornito incentivi a uscire di casa alla scoperta di qualche nuovo negozio o locale. Come la focacceria accanto al fast food più affollato di Porta Romana, il cui gestore, compiaciuto per i nuovi clienti portati da Tgtg, con un sorriso malinconico aggiunge: “Mi fanno tenerezza i clienti di tutta la vita che ritornano con l’app, per reclamare gli avanzi di giornata a buon mercato, e mi verrebbe voglia di dire: ma veramente?”. O l’ultimo ortolano sopravvissuto in mezzo ai vicoli di Brera: “Ah, mi ste nuove diavolerie nagott, è una cosa che fa il nipote col telefonino”. Si scopre anche l’esistenza delle ghost kitchen, cucine polivalenti che lavorano su commissione di vari brand e sfornano, in base alla fascia oraria, sushi, lasagne o kebab – “Senza piccante?”.

È anche un invito (per esclusione, visto che l’app non prevede il ritiro della merce per conto terzi) a diventare rider di se stessi. Alcuni negozianti accolgono bene, magari offrono un assaggio in più; per loro è un’opportunità di farsi dei nuovi clienti. Come una venditrice di pasta fresca e salse fatte in casa, con insegne in zona Duomo: “Ci porta qualche euro in più, ma anche molte facce nuove da altri quartieri, che a poco a poco ritornano”. Certo, in alcuni punti vendita controllati dalla grande distribuzione (Carrefour) si è percepiti come scocciatori dallo staff già oberato. E l’idea di certi bottini (in un minimarket Sigma per 3,99 euro si possono trovare delle confezioni di hamburger di tacchino e di fesa di tacchino, un cavolfiore intero e una confezione di cinque cetrioli) fa sentire un po’ avviliti, anche a pensare di aver salvato tutta quella roba dal macero.

Comunque fa sempre venire l’orticaria, in relazione a tutto ciò, l’espressione manageriale “win win”, per definire una situazione in cui tutti hanno qualcosa da guadagnare a fronte di commerci abbastanza neodickensiani di avanzi di cibo a tre euro (prepagati, è bene sottolinearlo, in digitale). Ma nei migliori casi, con Tgtg ci si può far venire appetito andando a scoprire un posto nuovo, comprare buon cibo a buon prezzo, e mettersi a tavola senza aver sfruttato lavoratori precari come i rider, e con la sensazione di avere fatto una cosa antispreco, un gesto ecologico. E se poi la focaccina è gommosa, pazienza.

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