01 marzo 2017 15:54

A un mese dall’insediamento della nuova amministrazione Trump, a Washington è emerso un elemento inatteso: la vittoria dei militari. È un trio di esperti generali, formatisi in Afghanistan e in Iraq nel corso degli ultimi sedici anni di guerra ininterrotta condotta dagli Stati Uniti, a esercitare la maggiore influenza sulla nuova amministrazione repubblicana.

Lo spropositato peso dei generali si manifesterà in particolare nel primo bilancio presentato dalla nuova amministrazione, che prevede un forte aumento delle spese militari degli Stati Uniti, già oggi le più alte al mondo.

Quest’influenza dei generali è un elemento (moderatamente) rassicurante per gli europei, che possono sperare di ritrovare un minimo di razionalità nei loro rapporti con l’amministrazione Trump. Ma anche una fonte di tensioni, poiché lo scontro culturale rischia di rivelarsi pesante per dei dirigenti europei che hanno, quasi tutti, voltato le spalle alla guerra, rifiutandosi di dare ai loro generali in pensione lo spazio politico di cui questi godono negli Stati Uniti. Questo succede perlomeno dai tempi di un certo Charles De Gaulle.

Gli addetti alle pulizie
I tre uomini forti della nuova amministrazione sono chiaramente il generale Jim Mattis, segretario alla difesa, il generale John Kelly, segretario alla sicurezza nazionale (una carica creata dopo l’11 settembre) e, da poco, il generale Herbert Raymond McMaster, nominato consigliere alla sicurezza nazionale alla Casa Bianca dopo il passaggio lampo di un altro ufficiale, il generale Michael Flynn.

Questo non significa che il presidente non sia esposto ad altre influenze come, in particolare, quella del suo inquietante consigliere speciale Steve Bannon, ex direttore del sito d’estrema destra Breitbart, oltre che membro del Consiglio per la sicurezza nazionale (Nsc), o di noti affaristi che tentano d’influenzare le relazioni degli Stati Uniti con l’Ucraina, la Russia o la Cina.

I generali sono ‘gli adulti’ della nuova amministrazione, quelli che hanno il compito di correggere gli errori del loro imprevedibile capo

Come faceva notare il giornalista del New York Times Thomas Friedman, esistono non meno di “cinque amministrazioni Trump” parallele e simultanee, senza che si sappia bene quale finirà per prevalere sulle altre in termini d’influenza sulle scelte politiche. Friedman ha stilato una lista tragicomica: “Trump entertainment” (intrattenimento), “Trump cleanup” (pulizie), “Trump crazy” (follia), “Trump Gop” (partito repubblicano) e “The essential Trump” (il Trump essenziale).

I generali, l’avrete capito, fanno parte della “Trump cleanup”. Sono, secondo il celebre giornalista, “gli adulti” della nuova amministrazione, quelli che hanno il compito di correggere gli errori del loro imprevedibile capo.

È stato così possibile vedere il generale Mattis, accompagnato dal vicepresidente Mike Spence, tentare di rassicurare gli europei la scorsa settimana, durante la conferenza sulla sicurezza di Monaco, con frasi come “il presidente ci ha chiesto di dirvi”, seguite da affermazioni totalmente opposte a quelle fatte da Donald Trump sul futuro dell’Europa o dei suoi impegni con la Nato.

La personalità di questi generali è affascinante. È propria di una generazione di militari, emersa dopo l’11 settembre, che non si lascia facilmente ingannare. Tutto il contrario del più recente caso di militare arrivato a un ruolo di potere, il generale Colin Powell, segretario di stato di George W. Bush, che si era fatto ingannare dal clan dei neoconservatori e aveva mentito al consiglio di sicurezza dell’Onu a proposito della presenza di armi chimiche in Iraq per giustificarne l’invasione nel 2003.

Disobbedienza e buone intenzioni
Ha attirato particolari attenzioni il generale McMaster, ultimo arrivato dopo il licenziamento lampo del complottista Michael Flynn e le sue bugie sui suoi legami con la Russia. Oltre a essersi distinto militarmente in Iraq, durante le due guerre del golfo, e in Afghanistan, è l’autore di un libro di teoria militare, Dereliction of duty (Inadempienza al dovere), pubblicato nel 1997, che criticava l’operato degli alti ufficiali statunitensi durante la guerra in Vietnam, accusandoli di non essere stati in grado di resistere alle indicazioni dei politici.

Per questo ufficiale intransigente, “la guerra in Vietnam non è stata persa sul campo, né sulle prime pagine del New York Times o nei campus degli Stati Uniti, ma a Washington, prima ancora che venisse inviata la prima unità americana”.

McMaster non ha solo elogiato l’insubordinazione benintenzionata, ma l’ha messa in pratica, criticando l’amministrazione Bush per il modo in cui è stata gestita la guerra in Iraq. Un fatto che gli è valso un accantonamento provvisorio e un rallentamento della carriera militare, nonostante la sua decisiva leadership sul fronte iracheno.

Questo atteggiamento assume oggi una grande importanza. In un editoriale del 24 febbraio sul New York Times veniva ricordato che il generale McMaster si è sempre preoccupato di non confondere la minaccia terroristica con l’islam, una sfumatura poco presente nella retorica del presidente Trump. Il quotidiano ha inoltre auspicato l’esclusione di Steve Bannon dal consiglio di sicurezza nazionale, con il fine di depoliticizzare questa istituzione, una posizione teorizzata dal generale McMaster nel suo libro, nel quale evocava le derive dell’epoca del Vietnam, quando il capo dell’Nsc era un certo Henry Kissinger.

I tre generali ormai in grado d’influenzare gli orientamenti della nuova amministrazione non sono delle teste calde guerrafondaie ma, a quanto pare, degli uomini dotati di sufficiente esperienza bellica (il generale Kelly ha anche perso un figlio in Afghanistan) da non volersi lanciare in una guerra alla leggera.

I rischi per l’ambiente
Questa onnipresenza dei militari nei posti chiave, visto che il segretario di stato Rex Tillerson sembra messo ormai totalmente in disparte e, per ora, incapace di avere un peso sulla posizione diplomatica degli Stati Uniti, solleva importanti domande per tutto il pianeta.

La prima è quella di sapere effettivamente quale sarà la loro reale influenza sulle decisioni che Donald Trump prenderà su alcuni dossier scottanti, come l’Iran e la Corea del Nord. I generali saranno davvero un contrappeso alle follie ideologiche dell’entourage di estrema destra del capo della Casa Bianca?

La seconda, e più importante, è se sia o meno una cosa buona per il pianeta il fatto che, da Washington, il mondo venga analizzato in termini militari. Soprattutto quando si scopre, come ha rivelato il 27 febbraio il New York Times, che l’aumento delle spese per la difesa sarà compensato, tra le altre cose, dai tagli a quello dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) e ad alcuni servizi sociali.

A valutare le minacce unicamente sotto un angolo militare, le risposte non possono che essere militari. Georges Clemenceau, l’uomo di stato francese che ha guidato il suo paese durante la prima guerra mondiale, diceva che “la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari”. Donald Trump la pensa in modo diverso.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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