15 ottobre 2017 10:53

Tempo fa Donald Trump ha definito L’arte di fare affari, il libro scritto nel 1988 con il giornalista Tony Schwartz, uno dei risultati di cui va più orgoglioso. Ha detto anche che è il suo secondo libro preferito, subito dopo la Bibbia. È esattamente il tipo di autobiografia che ci si può aspettare da un milionario che si è arricchito nell’America degli anni ottanta: un uomo di successo che spiega alla gente comune come vincere negli affari e nella vita. Trump racconta (in realtà sembra che Schwartz l’abbia scritto tutto da solo) la storia della sua vita da imprenditore come una cavalcata epica, dai giorni in cui si faceva le ossa nella periferia del Bronx agli ordini del dispotico padre Fred al momento in cui ha messo le mani su Manhattan, ovviamente tralasciando le perdite, gli intrallazzi e i cattivi affari. Il tratto comune di tutto il libro è la capacità di concludere un accordo vantaggioso con chiunque e in qualunque situazione.

Dopo nove mesi alla Casa Bianca, Trump avrebbe già abbastanza materiale per scrivere (o chiedere a un ghost writer di farlo per lui) un sequel politico di quel libro, che potrebbe intitolare L’arte di distruggere gli accordi. Il presidente aveva già cancellato numerosi provvedimenti voluti da Barack Obama – dall’inquinamento alle armi – ma nell’ultima settimana il progetto di demolire l’eredità del suo predecessore e trasformare il ruolo degli Stati Uniti a livello internazionale ha avuto un’accelerata impressionante.

Attacco al clima
Il primo passo è stato probabilmente anche il più prevedibile. Il 9 ottobre Scott Pruitt, direttore dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa), ha annunciato che l’amministrazione cancellerà il Clean power plan, la più importante misura approvata da Obama per ridurre le emissioni di anidride carbonica degli Stati Uniti. Il piano prevedeva di ridurre entro il 2030 le emissioni delle centrali elettriche del 32 per cento rispetto ai livelli del 2005. Concedeva incentivi agli stati per smettere di usare i combustibili fossili e adottare fonti rinnovabili. Davanti a decine di minatori in una città del Kentucky chiamata Hazard (pericolo), Pruitt ha detto che la “guerra al carbone” è finita e ha ribadito quello che Trump dice da due anni: la lotta contro i cambiamenti climatici rallenta la crescita economica degli Stati Uniti.

Nel paese le centrali elettriche alimentate con gas naturale e carbone sono responsabili di più di un terzo delle emissioni totali di anidride carbonica. Come ha fatto notare il New York Times, molti stati stanno già abbandonando il carbone per i suoi costi eccessivi, ma la decisione di Trump potrebbe rallentare la transizione verso le fonti rinnovabili. E, naturalmente, allontanerà ulteriormente gli Stati Uniti dall’impegno preso alla conferenza sul clima di Parigi del 2015. Mesi fa Trump ha annunciato di voler portare il suo paese fuori dall’accordo.

Come abbiamo già detto in questa rubrica, l’aggressività con cui Trump si è scagliato contro le regole sull’inquinamento e il razionamento delle risorse ha entusiasmato la sua base elettorale delle zone rurali del paese, e sta permettendo al presidente di crearsi un credito politico destinato a durare.

Svolta sulla sanità
Pochi giorni dopo Trump ha spostato la sua attenzione sulla sanità, annunciando delle misure che potrebbero avere conseguenze molto serie, e preoccupanti, per la salute di milioni di americani. Frustrato dai fallimentari tentativi della maggioranza repubblicana di cancellare l’Obamacare e sostituirlo con una legge che riduca drasticamente il ruolo dello stato nella sanità, Trump ha deciso di prendere la situazione in mano, di fatto usando i suoi poteri presidenziali per sabotare il sistema sanitario nazionale.

Il sabotaggio dell’Obamacare da parte di Trump va avanti a piccoli passi da mesi

Il 12 ottobre Trump ha firmato un decreto che cancella i sussidi alle compagnie assicurative che aiutano le persone con un reddito basso a coprire parte delle spese per le cure mediche. I sussidi cancellati da Trump ammontano a sette miliardi di dollari all’anno.

Secondo l’Atlantic, il provvedimento potrebbe destabilizzare il mercato delle assicurazioni individuali, che era già in subbuglio dopo la decisione di Trump, annunciata qualche giorno prima, di incoraggiare le agenzie federali ad adottare nuove regole per permettere a più americani di scegliere piani assicurativi meno costosi e meno regolati. Secondo molti esperti, misure del genere potrebbero dare vita a un mercato parallelo delle assicurazioni in competizione con quello creato dall’Obamacare, in cui le compagnie sarebbero libere di offrire piani meno costosi e che coprono meno malattie.

In pratica le compagnie aggirerebbero l’obbligo, previsto dall’Obamacare, di vendere assicurazioni anche a persone con malattie preesistenti, e potrebbero scegliere di coprire solo i pazienti già in salute. Non ci sono ancora stime precise di quante persone perderanno il diritto alle cure mediche a causa di questi decreti, ma è molto probabile che saranno colpiti duramente soprattutto gli americani di alcune zone rurali, per esempio quelle del midwest, dove l’economia è in crisi e dove l’età media della popolazione – e quindi l’incidenza di alcune malattie – è più alta che altrove. Molte di queste comunità hanno votato per Trump nelle elezioni di novembre.

In realtà, il sabotaggio dell’Obamacare da parte di Trump va avanti a piccoli passi da mesi: ad agosto aveva ridotto da 100 a dieci milioni di dollari la spesa per promuovere le campagne di adesione all’Obamacare e aveva tagliato del 40 per cento i finanziamenti ai gruppi che aiutano le persone a trovare un’assicurazione sanitaria; a luglio il dipartimento della sanità, cioè l’ente che in teoria dovrebbe promuovere e facilitare l’accesso ai benefici della legge in vigore, aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione contro quella legge.

A questo si aggiunge la decisione, motivata da ragioni ideologiche più che politiche, di annullare la disposizione dell’Obamacare che obbligava le aziende a farsi carico delle spese per la contraccezione dei loro dipendenti.

I pericoli del Nafta
Il prossimo accordo che Trump potrebbe decidere di cancellare (o quanto meno rivedere profondamente) è il trattato di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti (Nafta). Già in campagna elettorale sosteneva che l’intesa, entrata in vigore nel 1994, danneggia il sistema produttivo e i lavoratori statunitensi perché incentiva le esportazioni messicane e l’arrivo di manodopera a basso costo dal Messico. In questo momento il premier canadese Justin Trudeau è a Washington per negoziare alcune modifiche al Nafta: gli statunitensi chiedono, tra le altre cose, quote minime sui loro prodotti e la possibilità di uscire dall’accordo nel giro di cinque anni.

Secondo molti economisti, le posizioni di Trump sul Nafta si basano su calcoli sbagliati, e un’eventuale uscita dall’accordo potrebbe avere conseguenze negative per i consumatori e per le aziende statunitensi. Attualmente i tre paesi che hanno firmato l’accordo non pagano dazi doganali sulla maggior parte dei prodotti che attraversano le frontiere. Se gli Stati Uniti uscissero, Canada e Messico applicherebbero tariffe alte ai prodotti che arrivano dagli Stati Uniti. In particolare, il costo delle esportazioni agricole statunitensi in Messico schizzerebbe alle stelle.

Le conseguenze sarebbero ancora più gravi per il sistema produttivo statunitense. Da decenni importanti settori dell’economia statunitense – dalle automobili all’energia – hanno trasferito parte della loro produzione in Messico per abbassare i costi del lavoro. Questo ha permesso a Washington di restare competitiva con le economie asiatiche ed europee. Molti settori industriali soffrirebbero se questo sistema fosse messo in discussione.

Terzo elemento fondamentale: l’aumento delle tariffe e dei costi di produzione farebbe aumentare anche i prezzi dei prodotti negli Stati Uniti. Molti consumatori, per esempio, si troverebbero improvvisamente a pagare di più per la frutta che arriva dal Messico o per le macchine con componenti prodotti in Messico o in Canada.

Pietra tombale sull’immigrazione
Nell’ultima settimana Trump è riuscito perfino a distruggere un accordo che era stato lui a volere. L’8 ottobre la Casa Bianca ha presentato al congresso una lunga lista di misure sull’immigrazione da approvare in cambio della regolarizzazione dei cosiddetti dreamers, gli immigrati senza documenti arrivati negli Stati Uniti da bambini e ormai integrati nella società. Per ora queste persone, che sono circa 800mila, sono protette da un decreto voluto da Obama, ma potrebbero essere espulse se entro febbraio il congresso non regolarizzerà definitivamente la loro posizione.

In un raro e sorprendente momento di furbizia politica, a inizio settembre Trump aveva raggiunto un accordo con il Partito democratico, all’opposizione, per far passare la legge sui dreamers al congresso. Ma un mese dopo ha rovinato tutto ponendo condizioni severissime: per sostenere la legge sui dreamers la Casa Bianca chiede diecimila nuovi agenti di frontiera, leggi più severe sul diritto d’asilo, la costruzione di un nuovo muro al confine con il Messico e il blocco dei fondi per le cosiddette città santuario, quelle che si rifiutano di collaborare alle espulsioni degli immigrati irregolari.

Non è chiaro se le condizioni di Trump siano semplicemente la base di partenza di un negoziato, o se il presidente sia stato in qualche modo scavalcato dall’ala xenofoba e populista che ancora si aggira per la Casa Bianca (guidata dal consigliere Stephen Miller). Quello che è certo è che nel giro di un mese Trump ha fatto indignare i repubblicani, spaventati dall’idea di ridare delle armi politiche all’opposizione in vista delle elezioni di metà mandato del 2018, e i democratici, che avranno sempre meno incentivi a collaborare con il presidente. L’artista dell’accordo rischia di ritrovarsi senza nessuno con cui fare accordi.

Trump rischia di restare isolato anche sul fronte internazionale. Non tanto per la decisione di portare gli Stati Uniti fuori dall’Unesco, l’agenzia dell’Onu che si occupa della conservazione dei patrimoni culturali, ma piuttosto per la scelta di voltare le spalle all’accordo sul nucleare iraniano voluto da Obama e sostenuto anche da Europa, Russia e Cina. Il 13 ottobre Trump ha annunciato che non “certificherà” l’accordo, cioè farà valere la sua facoltà di non confermarlo. In questo modo ha passato la palla al congresso, che entro due mesi potrà esprimersi nuovamente sull’accordo, anche proponendo di modificarne le condizioni o di abbandonarlo. Come ha fatto notare Evan Osnos sul New Yorker, anche gli analisti più critici nei confronti di Teheran sono convinti che l’accordo voluto da Obama sia fondamentale per garantire un certo livello di sicurezza nella regione.

È già successo in passato che un presidente degli Stati Uniti si ritirasse da un accordo o da un’organizzazione internazionale (Ronald Reagan uscì dall’Unesco nel 1984) o cancellasse decisioni prese dai suoi predecessori. Ma probabilmente è la prima volta nella storia che un’amministrazione basa tutta la sua strategia politica sull’idea di distruggere quello che ha trovato, il più delle volte senza sapere cosa costruire sulle macerie.

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