31 maggio 2018 17:31

“È un esempio spaventoso del perché nessuna università dovrebbe oggi permettere a qualsiasi studente – che faccia ricerca, studi l’arabo, voglia studiare all’estero– di andare in Egitto. È troppo pericoloso e si è bersaglio di un regime brutale e repressivo”, scrive Marc Lynch, professore di scienze politiche e direttore dell’Istituto di studi mediorientali della George Washington University dopo la sparizione di un altro studente al Cairo.

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“Per generazioni gli studiosi di tutto il mondo sono andati in Egitto per studiare la politica, la cultura, la lingua, anche durante il periodo di Mubarak c’era un dibattito intellettuale vivace. Questo mondo si è impoverito per colpa della brutalità arbitraria dell’attuale regime”, gli ha risposto sempre su Twitter la professoressa Sumita Pahwa.

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Quello che è successo è la sparizione per quattro giorni di Walid al Shobaky, un ricercatore della University of Washington di Seattle, accusato di diffondere false notizie e di avere legami con un’organizzazione terroristica. Come gridavano allora gli attivisti egiziani in sostegno di Giulio Regeni: “È stato trattato come uno di noi”. Walid stava facendo ricerca sul sistema giudiziario egiziano. A Nour Farhat, professoressa di diritto all’università di Zagazig, che lo ha visto per ultima prima della scomparsa, diceva di “avere incontrato molti e importanti esperti di diritto in Egitto”.

Prima del dottorato Walid era stato giornalista. E ora su internet la pagina dello studente sul sito dell’università è bloccata, così come tutti i suoi account sui social network. Fare ricerca in Egitto è diventata un’attività pericolosissima, come attesta la condanna di un altro ricercatore, Ismail al Iskandarani, massimo esperto di Sinai e condannato a dieci anni di prigione il 22 maggio 2018, sempre con l’accusa di aver diffuso false notizie.

I casi degli universitari non sono isolati. L’Egitto vive una nuova ondata di arresti che sta scuotendo quello che è rimasto della società civile egiziana dopo cinque anni di regime totalitario di Abdel Fattah al Sisi.

La mattina del 24 maggio, la polizia è entrata in casa di Wael Abbas, pluripremiato blogger, accusato anche lui di terrorismo. Nella stessa settimana, i giornalisti Mostafa al Asar e Hassan al Banna, nonché il direttore dell’Egyptian coordination for rights and freedoms, Ezzat Ghoneim, sono stati arrestati.

Le cofondatrici di Al Nadeem center for rehabilitation of victims of violence, Magda Adly e Suzanne Fayyad, sono state convocate per un interrogatorio relativo alla questione dei finanziamenti esteri.

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La giovane Fatemah Mohamed è sparita mentre tornava a casa sua, nel sud, e apparentemente è stata imprigionata insieme al suo bambino di 14 mesi. Ormai, ha commentato l’Egyptian coordination for rights and freedom su Facebook: “Neanche i bambini scampano alle sparizioni forzate in Egitto”.

La cancellazione totale di qualsiasi voce di dissenso tocca anche il campo di Al Sisi, quando qualcuno osa diventare critico. Il 27 maggio è stato il turno dell’ex capo della campagna elettorale di Al Sisi, Hazim Abdelazim che, deluso della politica del presidente, l’ha criticato sul suo account Twitter. È stato arrestato immediatamente dopo con l’accusa di aver diffuso notizie false.

Il noto attivista ateo Sherif Gaber, arrestato il mese scorso, ha scritto subito dopo la sua liberazione: “Quattro giorni all’inferno”. Oggi, le sue parole risuonano come quelle di un’intera generazione di giovani egiziani che ha fatto la rivoluzione e aveva creduto in un futuro migliore: “Sto passando la peggiore fase della mia vita. Non mi sento bene. Non riesco più a pensare. È troppo, è tutto nero intorno a me, ovunque mi giri”.

Davanti a questa nuova ondata di arresti, il vicepresidente dei Fratelli musulmani, Ibrahim Munir, ha invitato “l’Unione europea ad assumersi le sue responsabilità. Ha supportato Al Sisi dall’inizio ed è complice di tutto quello che succede oggi”.

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