07 settembre 2017 16:25

Arrivati a metà della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si può senz’altro dire che c’è molta America, forse troppa. Anche se il più delle volte interessante. Specie quando è firmata dai britannici, come il meraviglioso ritratto di adolescente Lean on Pete di Andrew Haigh (in concorso). Meno quando sono gli americani stessi, di cui si salvano soprattutto il film di George Clooney, Suburbicon, e il denso e profondo First. Reformed di Paul Schrader.

A colpire sono stati anche due film israeliani intelligenti, profondi, disperati e molto spiritosi. Uno, Foxtrot di Samuel Maoz, quello più surreale e disperato, presentato in concorso. L’altro, The cousin di Tzahi Grad, viene invece dalla sezione Orizzonti.

Entrambi disegnano una società israeliana ormai quasi del tutto priva di sensatezza, in cui i cittadini conservano però umanità e una notevole dose di umorismo (più o meno nero).

L’elefante delle metafore
Sottile nell’ideare metafore inattese e, parzialmente, nell’agganciarle tra loro, Darren Aronofsky con il suo Mother! si conferma pesante come un elefante, greve, nel trattarle sul piano visivo e nella messa in scena globale. Già con l’ignobile The fountain aveva operato una svendita kitsch del cinema di uno dei più spirituali e potenti artisti che abbia mai avuto questo mezzo d’espressione, il russo Andrej Tarkovskij.

Anche se questa svendita è imperdonabile, con i film successivi aveva un po’ recuperato, in particolare con Il cigno nero. A quanto dichiara il regista, Mother! è frutto dell’angoscia convulsa, anzi degli incubi che gli procura l’accumularsi di tutte le derive in cui siamo immersi: quella delle destre estreme e degli stati democratici sempre più polizieschi e militarizzati, quelle dell’immigrazione e dei rifugiati, del terrorismo incontrollabile, dello sconvolgimento climatico.

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Ambienta e metaforizza il tutto in un’isolata casa di campagna a più piani, ennesima e stanca variazione di quella di Norman Bates in Psycho di Hitchcock. Ci abita una giovane coppia che comincia a ricevere la visita di un’altra coppia più avanti negli anni e decisamente strana. Poi dei figli, poi dei parenti, poi ancora di un’infinità d’altri visitatori di tutti i tipi, che si accampano con prepotenza spensierata più o meno dappertutto al punto da interessare prima polizia e poi militari i quali penetrano in casa anch’essi in maniera incontrollata non rispettando neppure più la sicurezza di chi è “invaso”.

Realizzare un film quasi astratto per il grande pubblico, fatto molto più di suoni che di dialoghi, dove ogni movimento, anche il più anodino, è un sussulto, è certo impresa originale. Come pure esprimere uno stato della mente che dall’inquietudine passa al caos quasi schizofrenico attraverso i movimenti sussultori di una cinepresa. Sembra di stare sempre in mezzo a un terremoto. E quindi lo stato fisico e mentale dell’oggi.

Purtroppo il tutto si risolve in una melassa new age, dove la giovane donna incinta è anche la madre-casa in osmosi con la madre-terra. Proiezione mentale al tempo stesso della creazione maschile, qui egocentrica e paranoica, che si nutre all’infinito dell’utero femminile per mantenere puro il cristallo (altro leit-motiv metaforico) dell’egocentrismo (infantile e non). Un film quindi piuttosto reazionario in questa rappresentazione acritica dell’attuale caos. Si può provare a immaginare l’effetto che farà presso un pubblico populista e di destra questa rappresentazione senza soluzione del caos in casa propria.

Inoltre Mother! fa anche emergere un discorso fondamentale, che qui vogliamo solo accennare, sul rapporto con l’immagine di una generazione di autori che troppo spesso, ma per fortuna non sempre, confonde facili estetismi e fusioni dalle estetiche più diverse dalla storia del cinema tecnicamente perfette ma prive di profondità: la capacità di non confondere l’oggetto pop da trasfigurare con la trasfigurazione vera e propria o il saper costruire immagini, magari anche con semplicità, provenienti dall’archetipo e dall’inconscio. Qualità dove eccelle tanto per fare un nome David Lynch.

Saper trasfigurare vuol dire sentire la potenza interna e non solo esterna di Tarkowskij, per esempio. Oppure del cinema sperimentale di Kenneth Anger, di Raúl Ruiz, del Querelle di Fassbinder, dell’Atalante di Jean Vigo, di Wakamatsu e molti altri. Senza mai avere la loro intensità e profondità d’indagine interiore se non a tratti. È il caso dell’esperimento Les garçons sauvages del francese Bertrand Mandico. Folle storia alla Jules Verne in chiave erotica, che si vorrebbe poesia visionaria su esseri umani dalla sessualità reversibile, dietro al lato provocatoriamente gay-queer, fa un pot-pourri dei registi più sopra citati. Qui la cinefilia diventa un giocattolo ed è un peccato perché la perizia tecnica è alta. Ma questo è un problema che riguarda in buona parte anche Aronofsky, al di là delle sue dichiarazioni alla stampa dove vorrebbe porsi distante dal kitsch del pop e dalla sua babele.

Verso sud
Bello, fresco, avvincente, intenso, sottile e diretto insieme Three billboards outside Ebbing, Missouri del britannico Martin McDonagh, presentato in concorso, è ambientato negli Stati Uniti. Questa storia di odio, omicidi e violenze sessuali e di risentimenti perpetui dovuti a frustrazioni mai risolte, in una cittadina remota del Missouri, sorprende lo spettatore con sconvolgimenti continui dal percorso narrativo più prevedibile. Il regista riesce nell’impresa di costruire lentamente un film che si potrebbe quasi definire edificante, con al centro uno straordinario personaggio femminile, ma senza mai cadere nel messaggio fasullo, artefatto.

Quasi ogni personaggio è duplice, ma il corso degli avvenimenti (il gesto d’amore di un morto) porterà tutti quanti a risolvere la propria duplicità in positivo salvando una piccola città che sembrava giunta a un vicolo cieco. Un vero gioiello, esattamente il genere di film d’autore rivolto anche a un ampio pubblico di cui c’è un grande bisogno. Umano, ma all’opposto della retorica e del melenso evidenzia il problema enorme della violenza sessuale sulle donne nel profondo sud degli States, in particolare su quelle nere.

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Il film affronta sia la questione razziale sia quella della violenza sulle donne, anche se formalmente le separa. Il notevole documentario The rape of Recy Taylor di Nancy Buirski (presentato in Orizzonti) le tiene invece unite. Ripercorre la storia di una donna nera, Recy Taylor, ancora oggi in vita, violentata da un gruppo di ragazzi. Emerge che in Alabama, dove è accaduto il fatto, queste violenze erano una pratica normale. Sono state centinaia le donne che hanno dovuto subire questo tipo di maltrattamenti senza denunciare, se non volevano che sulla famiglia e su loro stesse ci fossero ripercussioni vendicative molto pesanti. Pratiche da incubo perpetuo per molto tempo taciute dalla stampa bianca.

Anche se poi i movimenti per i diritti civili aiutarono a squarciare il silenzio, il film fornisce la misura di quale doveva essere il clima psicologico e sociale in quei luoghi e in quel periodo, gli anni quaranta. In questo viaggio nel dolore capiamo che la consapevolezza deriva da una conoscenza diffusa tra il massimo massimo numero di persone della memoria storica, visto anche che il maschilismo più orrido, come vediamo nel film di McDonagh, è ancora molto vivo.

Ma certa America è davvero inamovibile, sempre pronta a edificare nuovi muri rabbiosi. Come capita nella bella commedia nera Suburbicon (in concorso), che George Clooney ha realizzato da una sceneggiatura dei fratelli Coen. La liberazione dalle catene del passato per le nuove generazioni arriva solo attraverso l’omicidio? Oppure bisogna pensare alla Bernie Sanders che non crede che tutto l’elettorato bianco di Trump sia sessista ma piuttosto abbandonato a se stesso, e che quindi quel voto, come già fecero F.D. Roosevelt e i fratelli Kennedy, sia reversibile? Quale finale? Quello cinico e iconoclasta di Clooney (e dei Coen di converso) o quello di McDonagh, più umanista e, in netto contrasto con una tendenza in atto da decenni nel cinema americano a vedere tutto in chiave ironico-nichilista, dunque più anticonformista?

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