16 marzo 2018 13:41

Tom Smith, Justin Lockey e Elliott Williams si siedono e guardano fuori dalla finestra. Siamo nel bar all’ultimo piano di un hotel nel centro di Roma e fuori ormai è buio. Il cantante, il chitarrista e il tastierista degli Editors sono in Italia per presentare il loro sesto album, Violence. Sono in piena fase promozionale, tra interviste e impegni televisivi. Ma nonostante questo, hanno voglia di parlare di Violence, un disco nel quale proseguono la loro strada verso il pop elettronico.

La band di Birmingham da alcuni anni, complice anche qualche cambiamento nella formazione (Lockey e Williams sono entrati nel gruppo nel 2012), continua a rimescolare le carte. Non a caso molte canzoni del nuovo disco ricordano i Depeche Mode di Black celebration e Violator, più che i Joy Division degli esordi.

Violence, prodotto da Leo Abrahams e da Benjamin John Power del duo elettronico Fuck Buttons, in un certo senso è un disco politico, anche se gli Editors non sarebbero d’accordo con questa definizione. Gran parte dei brani che lo compongono sono un inno all’intimismo, al chiudersi dentro una stanza insieme alle persone che amiamo perché il mondo esterno è diventato troppo cupo (non a caso una canzone s’intitola Darkness at the door).

Nei prossimi giorni gli Editors presenteranno le canzoni di Violence dal vivo: passeranno anche dall’Italia il 22 aprile, per un’unica data al Mediolanum Forum di Assago.

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A cosa vi siete ispirati per comporre le canzoni di Violence?
L’album è radicato nel mondo contemporaneo, ma non è un disco politico nel senso classico del termine: non contiene messaggi o slogan. Le canzoni descrivono il modo in cui veniamo bombardati continuamente dalle notizie, dalle opinioni, dalle immagini. Anche questa è violenza. L’unica cosa che ci viene spontaneo dire, in mezzo a tutta la confusione che ci circonda, è: ‘Chiudiamo le tende e stiamo insieme’. Per questo il disco s’intitola Violence.

Il disco è stato registrato in tre fasi. Come sono andate le cose?
Abbiamo cominciato a lavorare sui pezzi da soli nei pressi di Oxford, in una piccola baracca che avevamo attrezzato come studio. Lavoravamo dalla mattina alla sera, con orari da ufficio, e tornavano a casa a mangiare. Nel disco precedente, In dreams, avevamo registrato i brani in una condizione di quasi isolamento a Crear, in Scozia. Stavolta eravamo più immersi nella vita quotidiana.

Stavolta però non avete fatto tutto da soli. Com’è nata l’idea di coinvolgere Leo Abrahams e Benjamin John Power?
L’anno scorso abbiamo ascoltato molto l’album World eater di Blanck Mass, il progetto parallelo di Benjamin John Power. Ci piaceva molto quell’elettronica un po’ dark e fuori di testa. Così abbiamo deciso di telefonargli. Benjamin ci ha convinto ad avere un approccio diverso alle nostre canzoni, molto più diretto e moderno. Eravamo abituati a suonare elettronica con uno spirito anni ottanta, quasi alla Donna Summer. Dopo aver lavorato con Power, in pratica ci siamo trovati in mano due dischi diversi uno dall’altro. Ci serviva una terza persona in grado di fare una sintesi tra le due cose. Così abbiamo chiamato Leo Abraham. Eravamo abituati a lavorare con persone più grandi di noi, come Flood e Jacknife Lee, mentre Leo è più giovane di noi e ha un approccio più da musicista. Ci siamo trovati bene. Alla fine delle prime registrazioni è sopravvissuta solo Belong, il brano che chiude il disco.

Perché avete scelto Magazine come primo singolo? È un pezzo atipico per voi…
È un brano esplosivo, eccitante. L’abbiamo testato dal vivo prima di registrarlo e andava sempre molto bene. Di solito quando fai un pezzo nuovo ai festival la gente va subito al bar. Ma con questo pezzo non succedeva e abbiamo capito che aveva qualcosa di speciale.

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A proposito di festival, di recente si parla di nuovo di crisi del rock e del fatto che le band con le chitarre non sono più tra i nomi di punta dei grandi festival come il Coachella e il Primavera sound. Cosa ne pensate?
Ci sono un paio di motivi per cui succede. Molte band rock ormai non arrivano neanche al secondo disco, perché le case discografiche non fanno investimenti a lungo termine, e quindi non hanno il tempo di diventare i nuovi Foo Fighters. E poi i gusti delle persone sono cambiati. L’ultima volta che i gruppi con le chitarre sono diventati davvero popolari è stato all’inizio degli anni duemila. Abbiamo raggiunto un punto di saturazione, il rock è diventato noioso. Comunque ci ancora molte band valide, ma semplicemente non sono famose.

L’unica ballata del disco, No sound but the wind, è ispirata al romanzo di Cormac McCarthy La strada. Come nasce questo pezzo?
L’ho scritto tanti anni fa. Nel 2008 il demo fu ascoltato dai produttori di un film di vampiri, The Twilight saga. New moon, e mi chiesero il permesso di inserirla nella colonna sonora. Allora ho deciso di cambiare un po’ le parole e ho registrato un’altra demo nel mio salotto e gliel’ho mandata. Mi aspettavo che ci pagassero qualcosa, ma non l’hanno fatto e si sono tenuti quella versione. In seguito insieme a Flood abbiamo provato a registrarla per l’album The weight of love, ma non funzionava. Poi un giorno durante un festival in Belgio No sound but the wind è diventata all’improvviso famosa, perché mentre la suonavo uno spettatore la cantava a squarciagola. Il suo viso è finito sui megaschermi e l’entusiasmo di questa persona ha contagiato tutto il pubblico. Nel 2010 abbiamo pubblicato la versione live della canzone, ma ancora non gli rendeva giustizia. Nel nuovo disco Leo ci ha detto che serviva un brano lento e mi ha convinto a registrarla.

La strada è un libro postapocalittico. Pensate che ci siano delle analogie con il mondo di oggi?
Per fortuna no. Quel romanzo racconta la fine del mondo. La canzone parla più che altro di proteggere l’innocenza del bambino che è il protagonista del libro. Per questo canto “Shut your eyes (chiudi gli occhi)”. Non serve avere scene alla Mad Max fuori dalla finestra per vedere l’apocalisse, basta vedere quello che passa in tv. Siamo bombardati dall’apocalisse tutti i giorni.

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