18 febbraio 2019 15:26

Il 17 febbraio il deputato della Lega Alessandro Morelli, presidente della commissione trasporti e telecomunicazioni della camera, ha presentato una proposta di legge per obbligare le radio italiane a dedicare “almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione”.

La sua proposta però parte da una premessa discutibile. Secondo Morelli, ex direttore di Radio Padania, “La vittoria di Mahmood all’Ariston dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica”. E qui già le cose non tornano. Mahmood è italiano al cento per cento e la sua vittoria è stata talmente espressione delle élite lontane dal “popolo” che Soldi, il brano che ha vinto Sanremo, sta battendo record su record su Spotify ed è entrato anche nella Top50 mondiale.

Questa iniziativa un po’ sovranista della Lega (l’iter legislativo in realtà non è neanche cominciato) purtroppo ha già ricevuto l’adesione della Siae, che ha definito la proposta “quanto mai opportuna”. La Fimi, invece, l’associazione dei discografici italiani, è stata più tiepida, stando alle dichiarazioni del presidente Enzo Mazza, che ha ricordato che la percentuale di canzoni italiane nel mercato nazionale supera già il 50 per cento.

Siamo in un momento storico in cui la musica italiana va molto bene, a partire dai concerti

Il problema è che la propaganda prende il sopravvento sulla realtà. Se guardiamo la classifica dei brani più trasmessi in radio nel 2018, scopriamo che gli artisti italiani sono già ben rappresentati: su 100 brani, stando a un’indagine di Radiomonitor, troviamo infatti 49 canzoni internazionali e 51 italiane.

Se guardiamo la classifica dei brani più ascoltati in radio la scorsa settimana (dati Earone), nei primi venti posti ci sono dieci canzoni italiane. Insomma, la musica italiana c’è eccome.

Non è chiaro poi in che modo, se questa proposta diventasse legge, si potrebbe imporre una programmazione musicale alle radio private, violando così la loro libertà editoriale. Le radio infatti non sono aziende pubbliche ma aziende che fanno della raccolta pubblicitaria la loro principale fonte di guadagno.

Siamo in un momento storico in cui la musica italiana va molto bene, a partire dai concerti. Basta vedere quanti biglietti vendono musicisti famosi come Jovanotti, Vasco Rossi e Ligabue, che da anni continuano a fare tour da tutto esaurito . Ma anche artisti una volta considerati di nicchia oggi fanno numeri importanti (Cosmo nel 2017 a Milano ha suonato ai Magazzini Generali, che hanno una capienza di mille persone. Il 2 febbraio si è esibito al Forum di Assago, che ha una capienza di 12.700 persone). Sono dati isolati, ma fanno capire bene una tendenza che potrebbe essere confermata da tanti promoter di concerti e organizzatori di eventi.

Insomma, i numeri ci dicono che questa svolta autarchica della musica italiana non serve. O perlomeno non serve intervenire sulle radio nazionali. Servirebbe intervenire invece sulle realtà locali, sulla musica dal vivo nei piccoli locali, che puntano sempre più sulle cover band e faticano a dare spazio ai gruppi esordienti che propongono brani originali. Servirebbe inoltre occuparsi dei servizi di streaming, che sono lo strumento principale usato dai giovani per scoprire musica nuova.

Inoltre c’è una questione più di fondo che va affrontata. Ascoltare canzoni straniere fa bene ai musicisti, ai produttori, ma anche al pubblico. Per fare musica di qualità, ma anche per ascoltare musica di qualità, bisogna essere aggiornati, curiosi, aperti al mondo. Chiudersi in se stessi, nei propri gusti e riferimenti culturali, rischia di impoverirci.

Fabrizio De André, un cantautore molto caro al nostro ministro dell’interno e vicepremier Matteo Salvini, quando era giovane s’ispirava ai cantautori francesi come Georges Brassens. Senza Les amoureux des bancs publics o Une jolie fleur non avremmo avuto probabilmente Bocca di rosa o La guerra di Piero. De André amava la società aperta, multiculturale. Ed è da questa società che la musica, e le arti in generale, traggono linfa vitale.

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