11 maggio 2019 15:33

Liberato, Guagliò
Sono passati due anni da quando è uscito su YouTube il video di Nove maggio, il primo singolo di Liberato. Da quel momento il cantante napoletano (?) ha pubblicato nuovi singoli con una discreta regolarità, accompagnati dai video di Francesco Lettieri, e ha fatto una manciata di concerti. Non molto dal punto di vista quantitativo. Eppure il fenomeno Liberato ha dato una bella scossa alla musica italiana, sia a livello di sostanza (la musica, gli arrangiamenti, le sonorità, un uso del napoletano nuovo e ipercontemporaneo) sia di forma (i video, i post su Instagram), importando dalle nostre parti un’estetica che all’estero funziona già da qualche anno. Il gioco sull’anonimato alla Elena Ferrante è stato la ciliegina sulla torta in grado di attirare l’attenzione di giornali, telegiornali e siti internet.

Il 9 maggio scorso Liberato, che da qualche mese non dava notizie di sé, ha fatto l’unica cosa che mancava finora per chiudere il cerchio: ha fatto uscire un album. Del resto non c’è niente da fare, tutti dicono che l’album è morto, ma finché non ne pubblichi uno non puoi dire di aver lasciato il segno fino in fondo.

Fare un disco però, è banale ma conviene ripeterlo, è più difficile che fare “solo” dei singoli. In Liberato (sul titolo forse il cantante si poteva sforzare di più) per esempio c’è un problema: cinque brani su undici (Nove maggio, Intostreet, Je te voglio bene assaje, Gaiola, Me staje appennenn’ amò, Tu t’è scurdat’ ‘e me) sono già noti, soprattutto per chi lo segue da tempo. E gli inediti hanno l’ingrato compito di dover reggere il confronto. Per superare questo scoglio, Liberato ha scelto la via della continuità, mantenendo una coerenza compositiva e negli arrangiamenti tra il vecchio e il nuovo e facendo accompagnare i pezzi da un mini film ambientato a Capri, diretto ovviamente da Lettieri.

I cambi di rotta sono minimi e non sempre riescono: il tentativo di spostarsi verso il reggaeton di Oi Marì non è riuscito del tutto, mentre Tu me faje ascì pazz’ è piuttosto anonima. Va molto meglio con Guagliò, sicuramente il migliore degli inediti, dove finalmente tornano dei bassi potenti, dove Liberato azzecca una melodia che s’incolla subito alle orecchie e nel finale si vira addirittura verso lidi drum’n’bass. Ma anche la strana disco di Nun’ ‘a voglio ‘ncuntrà cresce molto con gli ascolti e si fa apprezzare per una struttura più originale.

Ma quindi la prova dell’album Liberato l’ha superata o no? Dipende da che punto di vista si affronta la questione. Se questo disco fosse uscito un mese dopo Nove maggio avremmo gridato al miracolo. Adesso, un po’ liberi dall’hype, si può dire che Liberato è semplicemente un ottimo disco di pop italiano/napoletano, una boccata d’aria fresca per il nostro panorama, anche se a tratti c’è troppo facile romanticismo nei testi. Ad avercene di musica così. Liberato però sarà capace di andare oltre Nove maggio? L’album per il momento non risolve la questione. Questo per ora resterà un mistero, come la sua identità.

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Vampire Weekend, Sympathy
Father of the bride, il nuovo album dei Vampire Weekend, è una creatura strana ma molto interessante. Perché da un lato è vero che ci sono troppe canzoni, che la mancanza di coerenza negli arrangiamenti a volte disorienta, che Ezra Koenig a volte sembra un cantante country di serie b e costringe Danielle Haim a fare da improbabile spalla. Eppure è un disco vitale, coraggioso e con qualche ritornello memorabile.

Ci sono almeno due o tre momenti molto emozionanti in Father of the bride: il soffuso quasi jazz di My mistake è uno di questi, così come l’entrata del coro di voci preso in prestito dal film La sottile linea rossa di Terrence Malick che apre in due Hold you now o la brillante ospitata di Steve Lacy dei The Internet in Sunflower. E poi c’è quello strano flamenco un po’ fantasmagorico intitolato Sympathy.

I Vampire Weekend non sono più i campioni dell’indie rock di qualche anno fa. Sono diventati una band un po’ difficile da etichettare. Sembrano quasi i Flaming Lips, più come attitudine che come sonorità. Molto meglio così, questa è la strada giusta per la longevità musicale.

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Big Thief, UFOF
Non sono ancora riuscito a dedicare il tempo giusto al nuovo disco dei Big Thief, ma i voti altissimi che sta prendendo su giornali e siti stranieri dovrebbero essere uno stimolo. Al primo ascolto, il disco in effetti sembra interessante. Per ora mi appoggio a uno dei primi brani in scaletta, UFOF, perché è una bella lezione sull’accettazione della diversità e perché mi ricorda in qualche modo le atmosfere di Ok computer dei Radiohead.

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Skepta, Bullet from a gun
Il già vincitore del Mercury Prize Skepta scalda i motori. Il campione del grime, un genere nato nell’est di Londra che fonde Uk garage, rap e acid house, tornerà il 31 maggio con il nuovo disco Ignorance is bliss (titolo interessante). Il singolo di lancio è questo pezzo di neanche tre minuti, con una base splendida alla Boards of Canada e un testo inquieto (“Cause still it ain’t safe, not even in a world full of cops”, non c’è da stare sicuri, nemmeno in un mondo pieno di poliziotti) e in chiusura un sintetico e disperato “Planet earth” (pianeta terra), che non si capisce bene a cosa si riferisca ma mi piace. Non vedo l’ora che esca l’album.

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Mdou Moctar, Kamane Tarhanin
Se Jimi Hendrix fosse nato qualche decennio più tardi e avesse vissuto nel nord del Niger, suonando ai matrimoni per guadagnarsi da vivere, assomiglierebbe molto a Mdou Moctar. Del resto il blues viene dall’Africa. Ilana (The Creator), nuovo lavoro di Mdou Moctar, è l’ennesimo esempio di come il rock tuareg possa parlare perfettamente anche al pubblico occidentale.

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P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!

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