22 giugno 2019 13:56

Bill Callahan, 747
La musica di Bill Callahan è universale. A un primo impatto può sembrare solo folk a uso e consumo del pubblico statunitense, ma è molto di più. È inno alla trascendenza, alla natura, è riflessione sulla vita e sulla morte. Sono anni che Callahan fa dischi bellissimi, a partire da quelli pubblicati con lo pseudonimo Smog (Dongs of sevotion, per esempio). Adesso il cantautore del Maryland è tornato sulle scene con Shepherd in a sheepskin vest dopo sei anni di silenzio (una cosa strana per lui, di solito è molto produttivo). Nel periodo di pausa tra questo disco e il precedente, il capolavoro Dream river, sono successe alcune cose: Callahan si è sposato, è diventato padre ed è morta sua madre. Le nuove canzoni (ben venti) sono evidentemente influenzate da questi eventi.

Shepherd in a sheepskin vest è un disco intimo e bellissimo, ispirato a situazioni quotidiane, ricordi d’infanzia e piccoli dettagli che nelle sue mani diventano grandi narrazioni: nell’ironica The ballad of the Hulk Callahan ricorda di quando da bambino guardava in tv la serie L’incredibile Hulk, in Writing racconta la gioia di aver superato il blocco dello scrittore (con splendidi versi come “Clear water flows from my pen”) in What comes after certainty rievoca la sua luna di miele (e canta che “il vero amore non è magia, è sicurezza”).

Il pezzo più complesso, ma a conti fatti il migliore, è 747: un viaggio in aereo gli ispira al cantante una riflessione sulla nascita del figlio, la morte e altri temi esistenzialisti, mentre pennate di chitarre acustiche e un contrabbasso sembrano commentare le sue parole. I Neutral Milk Hotel avrebbero voluto scrivere un brano del genere.

Ci vuole qualche ascolto, ma una volta che si entra nel mondo di Shepherd in a sheepskin vest non è facile uscirne. Dal punto di vista compositivo, è un disco semplice, che pesca dalla tradizione della musica bianca americana, ma a livello tematico offre sorprese notevoli. Per fare un paragone azzardato, è come quando si legge La mia lotta di Karl Ove Knausgård, un’autobiografia romanzata in grado di trasformare il quotidiano in epica.

Verso la fine del disco arriva una cover del classico folk Lonesome valley (cantata insieme alla moglie Hanly Banks Callahan) e soprattutto l’altro picco dell’album, The beast, che cita il poeta irlandese William Butler Yeats e chiude il cerchio con suggestioni acquatiche ed enigmatiche. Quando ci sembrava di aver seguito un filo preciso, di essere entrati nel mondo di Bill Callahan, ci troviamo di nuovo a guardare l’orizzonte, confusi sul messaggio che ci ha inviato il cantautore. Ma ne è valsa la pena, e viene quasi voglia di ricominciare il viaggio.

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Floating Points, LesAlpx
Nel 2015 Floating Points aveva stupito un po’ tutti con Eleania, il suo primo album, che mescolava jazz ed elettronica in modo molto originale. Vederlo dal vivo, accompagnato da una formazione quasi post-rock, è una bella esperienza.

Floating Points però viene dall’elettronica “pura” (ammesso che ne esista una) e nel nuovo singolo LesAlpx sembra aver deciso di recuperare le atmosfere dei suoi primi ep, con bassi profondi e una cassa abbastanza dritta.

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Africa Express, Become the tiger
Damon Albarn non sta mai fermo. Lo si è scritto mille volte, ma tocca ripeterlo, perché non sta mai fermo per davvero. Dopo aver messo in pausa i Gorillaz, l’ex leader dei Blur l’anno scorso ha riesumato i The Good The Bad and The Queen, autori dell’ottimo disco a tema Brexit Merrie land e ora ha rimesso anche in pista il progetto non profit Africa Express, grazie al quale fa incontrare i musicisti africani con quelli mediorientali e del resto del mondo.

Il nuovo brano degli Africa Express, che anticipa il disco Egoli, in arrivo il 12 luglio, in realtà è una canzone da club, registrata da Albarn in compagnia di Jack Steadman dei Bombay Bicycle Club e del sudafricano Sibot, esponente dell’elettronica underground di Cape Town.

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The Raconteurs, Help me stranger
Il nuovo disco dei Raconteurs, Help us stranger, è esattamente quello che ci si potrebbe aspettare da Jack White e Brendan Benson, i due leader e principali compositori della band statunitense: riff alla Led Zeppelin e melodie alla Beatles/Eagles. Tutto il rock anni sessanta e settanta condensato in una formula indie. Il problema è che rispetto al passato l’ispirazione non è poi tanta e si arriva in fondo al disco senza rimanere troppo soddisfatti. A salvarsi ci sono tre o quattro brani, a partire da Help me stranger, arricchita da buoni intrecci tra chitarre acustiche ed elettriche.

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Rolo Gallardo feat. Polybius, Memoria
La New Latam Beats è una casa discografica da tenere d’occhio, perché pesca tra la musica latinoamericana e tira fuori cose molto interessanti. L’ultima uscita in ordine di tempo è la compilation New Latam Beats from Peru, che indaga tra le radici della diaspora afrolatina peruviana. Come spiega il sito Sounds and Colours, sempre una fonte preziosa di novità, i brani scelti mescolano generi tradizionali come la chicha e la salsa dura con l’elettronica.

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P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!

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