31 maggio 2018 17:53

In Lazzaro felice, con cui Alice Rohrwacher ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura al festival di Cannes, una comunità di braccianti agricoli vive in uno stato di arretratezza quasi medievale. Una trentina di persone tra uomini, donne e bambini lavorano nella tenuta di una contessa che si chiama L’Inviolata.

Tale è lo stato in cui li ha “conservati” la contessa che si fa fatica a capire in che realtà geografica o in che epoca ci troviamo. L’atmosfera da antica fiaba popolare è resa perfettamente, grazie a un cast di sconosciuti diretti alla grande e a delle trovate geniali dell’autrice. E in più c’è Lazzaro, un ragazzo ingenuo, sempre disponibile con tutti, un personaggio che potrebbe stare in una delle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino, che potrebbe essere un santo del calendario, come ce li racconta la tradizione cattolica.

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Nella seconda metà del film (magia?/miracolo?) ci spostiamo nella periferia di una grande città, ai giorni nostri. Ma c’è continuità e scopriremo che da un certo punto di vista siamo ancora, o di nuovo, in un medioevo in cui paura, superstizioni e suggestioni sono più vive che mai.

Ad Alice Rohrwacher riescono dei miracoli. Magistrale la sfaccettata raffigurazione del mondo contadino. Bellissima anche la sequenza che la stessa autrice ha commentato per Anatomia di una scena. Magari altre cose, più banali, non le sono riuscite così bene, ma non importa. Lazzaro felice è proprio un bel film, ricco e originale.

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Nel 2013, dopo Effetti collaterali, Steven Soderbergh aveva annunciato che non avrebbe più diretto film. In realtà non si è praticamente mai fermato, visto che dopo sono arrivati il film tv Dietro i candelabri e due stagioni della serie The Knick. Con La truffa dei Logan, Soderbergh torna su un terreno familiare: il film racconta una rapina, e tutta l’intricatissima trama è costruita intorno al colpo.

I fratelli Logan sono dei disgraziati, al punto che gira la voce che su di loro ci sia una specie di maledizione. Vivono in una piccola cittadina del West Virginia, in un’America depressa, al limite della rassegnazione, ma anche arrogante e cialtrona. Entrano in ballo un grande evento sportivo (una corsa automobilistica che farà affluire un fiume di soldi nelle casse dell’autodromo che la ospita) e un esperto di esplosivi che si chiama Joe Bang (Daniel Craig), con i suoi due fratelli Fish e Joe, rinati in Cristo.

Molti i punti in comune con Ocean’s eleven, soprattutto nella costruzione della trama, nel ritmo e nella capacità di tenere insieme tanti tasselli narrativi. Rispetto a quel film, però, Soderbergh sembra voler dire la sua sull’America di oggi, un paese che lascia i suoi cittadini senza acqua potabile, senza assistenza medica, senza lavoro. Come ha scritto Richard Brody sul New Yorker, è il più coeniano dei film di Soderbergh, che però non arriva alla satira sociale dei fratelli texani, senza per altro rinnegare le cose che sa fare meglio. Nel cast anche Katie Holmes, Katherine Waterston e Hilary Swank.

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L’arte della fuga di Brice Cauvin è tratto dal romanzo dello scrittore statunitense Stephen McCauley. Tre fratelli vivono ognuno a modo suo la crisi di mezza età e un rapporto complicato con i genitori, piccoloborghesi abituati a non dover guardare in faccia la realtà. Trama ideale per una commedia indie, come ne girano tante negli Stati Uniti. Cauvin, quindi, ha cercato di trasportare in Francia, a Parigi, un canone molto americano. Se c’è riuscito o no dipende dai punti di vista, così come è soggettivo il concetto di noia. Prova a condizionarci la grinta di Agnès Jaoui, che però non è abbastanza a lungo sullo schermo.

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In End of justice. Nessuno è innocente, di Dan Gilroy (Lo sciacallo), Denzel Washington interpreta Roman J. Israel, un avvocato fuori dagli schemi, borderline, che ha deciso di rinunciare alla famiglia e, in qualche modo, alla carriera, per mettere in discussione l’intero sistema giudiziario statunitense. Alcuni avvenimenti lo costringono a venire allo scoperto e mettono in dubbio i suoi principi.

Come ha scritto Ben Kenigsberg sul New York Times, questo genere di film, per motivi commerciali o di scarsa fantasia, è una rarità a Hollywood, dove si privilegiano storie vere e supereroi. E forse hanno perso un po’ la mano. Non aiuta Denzel Washington, che ci regala un personaggio capace di metterci a disagio anche solo camminando. In questo senso la sua interpretazione è molto riuscita. Ma alla fine di End of justice il disagio prevale su ogni altro sentimento nei confronti di Roman J. Israel.

In uscita anche Tuo, Simon, commedia di Greg Berlanti sul coming out di un ragazzo di 17 anni di Atlanta, con Nick Robinson già visto in vari film tra cui l’interessante The kings of summer.

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