11 gennaio 2019 14:27

Non si può non ringraziare Massimiliano Bruno per Non ci resta che il crimine, una commedia in cui tre cinquantenni spiantati – Sebastiano, Moreno e Giuseppe – interpretati rispettivamente da Alessandro Gassman, Marco Giallini e Gianmarco Tognazzi, finiscono per attraversare un passaggio spazio-temporale che sta nel retro di un bar di Roma, e si ritrovano nell’estate del 1982. Visto che c’entrano gli anni ottanta, tutti hanno parlato di Ritorno al futuro, ma forse il titolo indica in modo più esplicito il vero nume tutelare del film.

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La fissazione di Moreno per la storia della banda della Magliana li porta a contatto diretto con uno dei boss dell’epoca, Enrico De Pedis, chiamato Renatino, interpretato da Edoardo Leo. Completa il cast Ilenia Pastorelli nei panni della donna del boss. Il film di Bruno gioca con tanti elementi: il viaggio nel tempo, gli anni ottanta, la banda della Magliana. Ma alla fine quelli che fanno funzionare tutto a meraviglia sono l’ironia, i sentimenti, il cast e una scrittura – oltre a Bruno, alla sceneggiatura hanno lavorato Andrea Bassi, Nicola Guaglianone e Menotti – generosa e senza complessi. Difficilmente ora potrò sentire Tre parole di Valeria Rossi senza sghignazzare.

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In Benvenuti a Marwen, di Robert Zemeckis, Steve Carell interpreta Mark Hogancamp, un illustratore traumatizzato pesantemente dopo aver subìto un’aggressione violenta e selvaggia. Hogancamp si rifugia in un mondo di fantasia che ha la forma di un modello in scala di Marwen, un villaggio belga della seconda guerra mondiale.

La storia è stata già raccontata dal documentario Marwencol di Jeff Malmberg. Zemeckis dà vita ai pupazzi del villaggio e alle fantasie del protagonista. Come scrive Ian Freer su Empire: “Riesce solo parzialmente a illuminare il pubblico sulla visione del mondo disturbata di un uomo che ha subìto un trauma profondo”, per poi aggiungere, “trattandosi di un film di una major va comunque applaudito”. E come Freer, non me lo sogno proprio di mettere in discussione Robert Zemeckis.

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Ma ci sono altri due film di cui ancora non avevo scritto e che meritano. Vice di Adam McKay e Suspiria di Luca Guadagnino. Forse la cosa più divertente che ho letto su Suspiria l’ha scritta Kim Newman su Empire. Il film di Guadagnino non c’entra talmente niente con il classico di Dario Argento che ora Argento è legittimato a fare un remake di Chiamami col tuo nome in cui il sangue scorre a fiumi.

In ogni caso abbiamo letto dappertutto che il Suspiria del 1977 e quello del 2018 sono due film completamente diversi. Guadagnino prende spunto dalla trama del film di Argento per fare una serie di variazioni. Per citare Lee Marshall sul numero di Internazionale in edicola: “Guadagnino si pone al film di Dario Argento come Brahms alle prese con il capriccio n. 24 di Paganini”.

In queste variazioni il regista palermitano ci mette davvero di tutto. Storia, politica, psicanalisi, Pina Bausch. Oltre, ovviamente, a Tilda Swinton in tre consistenze. Come diceva sempre Lee Marshall, in troppi hanno ceduto alla facile tentazione di stroncare questo esercizio d’autore. La mia tentazione principale è di scrivere che non è un horror (e non lo è), ma poi non voglio che qualcuno mi faccia causa perché è rimasto impressionato da qualche scena raccapricciante. A impressionarmi sono state soprattutto le scene di danza e i dibattiti tra le streghe nel loro “tinello”.

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La grande scommessa di Adam McKay era un film clamoroso. Anche se comunque non ci si capiva niente è riuscito a rendere divertente la famosa bolla immobiliare del 2008. In Vice il regista prende di punta un altro grande speculatore sulle sfighe altrui come Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti durante i due mandati di George W. Bush. A interpretarlo è Christian Bale, da Oscar. Vice non mi ha impressionato come La grande scommessa, ma McKay invece continua a impressionarmi. La sua è una satira eccezionale.

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