21 luglio 2015 17:51

“Mario Giacomelli ha trasformato le sue convinzioni in immagini”, afferma la giornalista del Guardian Amanda Hopkinson. Ha celebrato durante tutta la sua carriera il paese in cui è nato e ha vissuto, e in particolare la sua regione, le Marche, raccontandola da ogni punto di vista. I campi, i laghi e le montagne, di cui ha messo in risalto i contrasti e le linee, nella loro naturale evoluzione e nei cambiamenti dovuti all’intervento umano.

Nato a Senigallia nel 1925, non ha frequentato molto la scuola e a 16 anni ha cominciato a lavorare in una tipografia. Fotografo autodidatta, lavorò come freelance per più di dieci anni fino a quando nel 1954 raggiunse il gruppo Misa. Nello stesso anno ritrae gli anziani che vivevano nell’ospizio in cui lavorava sua madre.

In camera oscura le sue immagini prendono toni drammatici, spiega la storica Giuliana Scimé, e i bianchi diventano più bianchi e i neri più neri. Ha sperimentato anche con le doppie esposizioni, soprattutto nelle immagini realizzate negli anni settanta per accompagnare un’edizione dell’Antologia di Spoon river di Edgar Lee Masters.

Nonostante nel corso della sua carriera abbia fotografato i paesaggi dell’Etiopia, i riti dei monaci buddisti in Tibet e i pellegrini diretti a Lourdes, la sua attenzione si rivolgeva soprattutto all’ordine e al disordine della sua terra, al paesaggio spesso scolpito dall’agricoltura e alle persone che ha amato e che ha incontrato.

“Forse non ho mai fotografato il paesaggio, l’ho solo amato”, ha detto Giacomelli in occasione di un’esposizione a Cardiff nel 1983.

Una mostra a Vienna, che durerà fino all’8 agosto 2015, ripercorre la carriera dell’artista attraverso quasi cento immagini.

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