Per la terza volta in meno di due mesi il movimento di protesta maliano del 5 giugno (M5) ha dato prova della sua capacità di mobilitazione. Il 10 luglio, infatti, le acque del fiume Niger (che attraversa la capitale Bamako) si sono agitate di nuovo, con onde così alte da far temere uno tsunami capace di spazzare via il regime del presidente Ibrahim Boubacar Keïta (Ibk).

Questa metafora, visto il bilancio finale, non sembra esagerata: le violenze dello scorso fine settimana hanno causato undici morti e una settantina di feriti, e alcuni edifici pubblici, come il parlamento, sono stati attaccati. Sui cartelli branditi dai manifestanti, che erano diverse migliaia, si leggeva: “Ibk, va’ via!”. Chi è sceso in strada invitava i maliani alla disobbedienza civile per spingere il presidente a gettare la spugna. Alle richieste dei sostenitori di Mahmoud Dicko (l’imam ultraconservatore a capo dell’M5) il presidente maliano ha risposto sciogliendo la corte costituzionale, come aveva raccomandato alcuni giorni prima la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao). Ricordiamo che per risolvere la crisi sociopolitica maliana – nata dopo le legislative contestate di marzo e aprile – la Cédéao aveva suggerito innanzitutto di ripetere il voto nelle circoscrizioni dove l’opposizione sosteneva che la corte costituzionale avesse manipolato i risultati per favorire i politici vicini a Ibk. E in secondo luogo proponeva di creare un governo di unità nazionale.

Barricata davanti alla moschea dell’imam Dicko, Bamako, 12 luglio 2020  (Michele Cattani, Afp/Getty)

Ma per i manifestanti questa terapia è poco più di un intervento di facciata. Ormai sono convinti che il problema del Mali è uno solo: il presidente. La loro posizione è diventata più radicale. Nelle prime due manifestazioni non chiedevano le dimissioni di Ibk, ma solo la nascita di un governo di transizione guidato da un primo ministro che fosse espressione del loro movimento.

Il Mali appare sempre più spaccato in due. Alcuni manifestanti già accarezzano la speranza di replicare quello che è successo in Burkina Faso nel 2014, quando un’insurrezione popolare spazzò via un regime “marcio”. Altri non disdegnerebbero eventuali incarichi ministeriali in un governo di unità nazionale. Il Mali è davanti a un bivio e la repressione violenta delle proteste non è la soluzione. Anzi, se continuasse a usare la forza, Ibk potrebbe spingere i manifestanti a marciare sul palazzo presidenziale, con l’appoggio di quelle parti dell’esercito scontente dell’attuale situazione.

Sacrificio personale

Senza voler fare un’apologia del colpo di stato come via d’accesso al potere in Africa, è lecito chiedersi se le elezioni servano davvero a sbarazzarsi dei regimi corrotti. Tanto più che spesso questi regimi hanno avuto tutto il tempo per circondarsi di istituzioni disposte a chiudere un occhio davanti ai brogli, come avrebbe fatto la corte costituzionale del Mali. Suggerendone lo scioglimento, Ibk sembra dare ragione alla piazza.

Da sapere
Otto anni d’insicurezza

◆ In Mali la mobilitazione popolare è motivata anche dalla grave instabilità causata in origine dalla guerra del 2012, scrive Médiapart: “Dopo aver perso il controllo del nord, lo stato è sembrato assente anche nel centro, dove le milizie – alcune legate ad Al Qaeda o al gruppo Stato islamico – moltiplicano i loro attacchi. L’insicurezza regna anche a sudest, dove lo scorso 25 marzo è stato rapito il leader dell’opposizione Soumaila Cissé. A oggi non se ne hanno notizie”. Tra i politici considerati responsabili di questa situazione c’è Karim Keïta, il figlio del presidente, che il 12 luglio ha accettato di dimettersi da presidente della commissione parlamentare per la difesa. Afp


Ma non è una deriva isolata. L’intero governo maliano è caratterizzato da corruzione, frodi e favoritismi. Ecco perché Ibk deve accettare, se necessario, di sacrificare le sue ambizioni per salvare il Mali. Questo significa che deve fare concessioni importanti ai sostenitori di Dicko. In caso contrario, potrebbe ritrovarsi costretto a lasciare il potere dalla porta sul retro.

Ibk ha ancora il controllo della situazione e può riportare la calma. E la gente non è stupida. Sa che è la comunità internazionale a mantenerlo al potere, perché non vede di buon occhio un Mali sotto il controllo di un imam islamista. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati